Tradurre da una cultura all’altra: come La suerte del enano è diventato L’ultima a morire

Innanzitutto, diciamolo forte e chiaro, i titoli italiani dei libri non li scelgono i traduttori. È inutile che ve la prendiate con noi: il colpevole della sfilza di titoli che non molto tempo fa ha invaso il mercato al grido di La donna/L’uomo/Il bambino che + verbo all’imperfetto (+eventuali spezie, segreti, misteri) è l’ufficio marketing, fatevene una ragione.

Detto questo, però, il traduttore può certamente essere consultato per la scelta, soprattutto quando tradurre letteralmente il titolo originale è una soluzione impraticabile. Nel caso di La suerte del enano, non erano le parole in sé a essere “intraducibili” (vade retro!) ma il concetto culturale cui fanno riferimento.

Di come cambiano le copertine magari parleremo un’altra volta (spoiler: in questo caso mi piace di più quella italiana)

Il romanzo, che è un thriller in cui non compare mai nessun nano, cita più volte il modo di dire spagnolo Tener la suerte del enano, que se fue a cagar y se cagó en la mano (esistono altre versioni con piccole modifiche, ma il succo è questo). Devo tradurvelo? Il senso è “avere una sfiga micidiale”: il proverbiale nano non solo ha la sfortuna di essere nato con una struttura corporea svantaggiosa, ma come se non bastasse gliene capitano di tutti i colori (soprattutto di un colore, diciamocelo).

Gli spagnoli hanno una relazione più libera con il tema scatologico: in italiano, e perdonatemi la volgarità, a parte “mi fa cagare” o “vai a cagare”, “cagarsi sotto” o un indignato “merda!” non nominiamo poi così spesso quello che ci capita di fare in bagno. In spagnolo, invece, persino il Diccionario de la Real Academia rinuncia a elencare tutti gli usi di cagarse en e completa l’elenco con un bell’eccetera: me cago en diez, o en la leche, o en la mar, etc. Il bilingue di Hoepli ne aggiunge qualcuno: me cago en la leche/la mar/la hostia/diez/Dios. Insomma, è un’espressione usatissima, ma il verbo cagar non ha solo un senso dispregiativo, e questo dimostra quanta confidenza abbiano gli spagnoli con l’argomento.

Fonte: DRAE

Tutto questo preambolo per dire: no, a mio parere non si poteva tradurre letteralmente questo modo di dire e aspettarsi che il lettore italiano lo trovasse normale e ragionevole. All’inizio ho pensato di lasciarlo così, lo ammetto: non osavo andare a modificare un’espressione così ingombrante da essersi presa anche il titolo. Ho pensato: chi me lo fa fare di impegolarmi in una modifica che sicuramente comporterà tutta una serie di problemi, attirandomi magari le ire dei lettori e dell’autore? Poi però ho preso coraggio: si tratta di un romanzo di intrattenimento, il testo deve scorrere fluido e appassionare il lettore, senza lasciargli interrogativi di tipo linguistico: in italiano quel nano non ci stava proprio.

Ovviamente il problema non si poneva solo nel titolo, ma anche e soprattutto all’interno del testo: ogni volta che qualcuno cita questo proverbio alla protagonista, lei lo trova strano e fuori luogo (mentre gli altri sembrano ritenerlo perfettamente normale), quindi ci voleva un’espressione che potesse risultare comunque un po’ stonata, bizzarra, una frase che nessuno userebbe parlando con un ispettore di polizia.

Ne ho parlato a lungo con Rossella Monaco di La Matita Rossa, che ha fatto da tramite con la casa editrice Ponte alle Grazie, e con la redazione: occorreva trovare un modo di dire che fosse allo stesso tempo stravagante e naturale in italiano, e che mantenesse più o meno il senso dell’originale, con l’aggravante che non si trattava solo di una singola citazione all’interno di un romanzo, bensì del titolo e di altre quattro o cinque ricorrenze nel testo.

Dopo aver rimuginato a lungo e aver scartato diverse ipotesi, mi è venuto in mente il detto Chi vive sperando, muore cagando: l’argomento scatologico rimane, inoltre si inseriva bene in quasi tutte le occorrenze nel testo (talvolta si è reso necessario qualche cambiamento per eliminare i riferimenti al nano), è un modo di dire che può risultare un po’ strambo ma è comunque abbastanza conosciuto. Certo, la fortuna (del nano) e la speranza non sono proprio la stessa cosa, ma non è stato poi così difficile renderli sovrapponibili con qualche piccola modifica al testo, in particolare nella prima occorrenza (se siete curiosi, ve la incollo in coda al post).

Ma come si è arrivati al titolo L’ultima a morire? Consultandomi con l’editore e facendomi (molto) coraggio ho provato a giocare sul tema della speranza e sul fatto che si tratta di un thriller. Dopo aver scartato titoli come Chi vive sperando e varie declinazioni sul tema, mi si è accesa una lampadina: chissà, forse mi sono venuti in soccorso anche i Litfiba (ognuno ha le ispirazioni che si merita), sebbene in Gioconda abbiano censurato il detto precedentemente citato: La speranza è l’ultima a morire, chi visse sperando morì non si può dire.

Alla fine, tra le mie proposte è stato scelto proprio il titolo La speranza è l’ultima a morire, ma in extremis mi è venuto in mente di accorciarlo: perché non solo L’ultima a morire? Il riferimento alla speranza resta comunque sottinteso, e in più è anche il titolo del primo capitolo, in cui la protagonista, che ha appena ricevuto una bella dose di pallottole in corpo, sta proprio per morire (è allora che pensa al proverbio sul nano, alle sfortune che si susseguono senza che noi possiamo far nulla – nemmeno sperare, dico io!). Il titolo del libro è stato quindi abbreviato all’ultimo momento, addirittura dopo essere stato annunciato:

Fonte: pagina FB di Ponte alle Grazie

Molto meglio L’ultima a morire, siete d’accordo? Per i più curiosi (e per chi muore dalla voglia di farmi le pulci), ecco il paragrafo che mi ha fatta penare di più:

Fue Patricio Matesanz quien le habló de él.

Del enano.

Y no uno cualquiera, no. Uno que, sin saber cómo ni por qué, durante una deposición en apariencia rutinaria terminó defecándose en la mano. La naturaleza inconformista de Sara Robles y, por supuesto, su deformación profesional, la invitan a formularse una cuestión: ¿Determina para algo el tamaño del sujeto en el hecho de mancharse una extremidad con sus propias heces? Está claro que no. Sin embargo, que su altura no influya en el resultado, ergo, que sea circunstancial, no altera la situación en la que se encuentra: con su diminuta mano manchada de mierda.

Y ahí, precisamente ahí, encontró Sara el quid de la cuestión: lo circunstancial no suele determinar el resultado pero puede terminar siendo una mierda. Es decir, una desgracia.

Una desgracia como la que le ocurrió al enano, que fue a cagar y se cagó en la mano.

Una desgracia como la que le acaba de ocurrir a ella.

Ed ecco come l’ho trasformato in traduzione, per eliminare il riferimento al nano:

È stato Patricio Matesanz a parlargliene.

Di quel modo di dire.

Non uno qualsiasi, no. Uno che ti spiega come, di punto in bianco, mentre credi di vivere la tua vita con una serie di legittime aspettative, potresti fare una brutta fine: «Chi vive sperando muore cagando». La natura anticon­formista di Sara Robles, e ovviamente la sua deformazione professionale, la spingono a farsi una domanda: sperare in qualcosa può influenzare in un senso o nell’altro ciò che accadrà? Ovviamente no. Tuttavia, il fatto che la speranza non incida sul risultato, ergo, che sia circostanziale, non cambia di una virgola la situazione in cui si trova ora: nel­la merda fino al collo.

E in questo, proprio in questo, Sara trova il quid del­la questione: le circostanze in genere non influiscono sul risultato, ma possono sempre rivelarsi una merda. Ossia una disgrazia.

Come succede a chi vive sperando.

Come è appena successo a lei.

Sono modifiche sostanziali, me ne rendo conto. È una soluzione efficace? Avreste tradotto in un altro modo? A voi l’ardua sentenza.

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Di critiche, errori e scelte

criticismbAvevo in mente già da un po’ di scrivere questo post, dato che il materiale sull’argomento continua ad accumularsi: sempre più spesso si trovano in giro critiche più o meno ragionate al lavoro e alla professionalità altrui.

Credo che ultimamente sia cominciato tutto dalla famosa diatriba sulla traduzione della scena di Game of Thrones in cui viene mostrata l’origine del nome di Hodor. Se ve la siete persa, trovate qui un’interessante intervista a Matteo Amandola, che si è trovato alle prese con il difficile compito di mantenere l’assonanza “hold the door-Hodor” in italiano. Ecco, da quando la puntata è stata sottotitolata e poi doppiata in italiano la rete si è scatenata con critiche, lamentele e pareri non troppo costruttivi.

Tutti si sono sentiti in dovere di criticare la scelta del traduttore/adattatore, ma pochissimi sono stati in grado di fornire proposte alternative davvero valide. Molti non hanno nemmeno colto il problema, suggerendo soluzioni impraticabili per una serie televisiva. Ecco, questa ansia di criticare il lavoro altri, imperversata per settimane, mi ha sconvolta non poco.

Perché le scelte di un traduttore sono personali e come tali soggette a critiche, è vero, ma penso che chi non si è mai cimentato in questo lavoro non possa rendersi conto delle sue effettive difficoltà. Per carità, anche uno spettatore o un lettore hanno il diritto di esprimere la propria opinione, ma spesso non hanno idea di quello che c’è dietro a una traduzione, delle ore di fatica e ricerche, dei tempi di consegna strettissimi, delle parole che si incrociano davanti agli occhi e di quei momenti in cui anche la soluzione più semplice non riesce proprio a venirci in mente.

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Criticare è sicuramente più facile che proporre soluzioni, così come distruggere è più facile che creare. Lo faccio anch’io, perché mi trovo spesso a leggere le traduzioni altrui non solo per svago, ma anche per lavoro, quindi con occhio più attento e avendo sotto mano il testo originale. In questo modo è piuttosto facile notare calchi, soluzioni goffe e imprecisioni, ma cerco sempre di non fermarmi alla singola frase o al paragrafo che ho di fronte: quando si traduce un intero libro, è inevitabile che prima o poi l’attenzione cali. Certo, sarebbe meglio se non accadesse, e l’occhio esterno del revisore è imprescindibile per correggere la maggior parte di questi scivoloni, ma siamo pur sempre esseri umani.

È forse il caso delle critiche rivolte a Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout, autrice recentemente passata da Fazi a Einaudi e dalla voce di Silvia Castoldi a quella di Susanna Basso. Entrambe traduttrici di altissimo livello, quindi, eppure quest’ultimo libro ha suscitato non poche perplessità per alcuni punti in cui forse l’editing è stato poco attento, lasciando regionalismi e frasi un po’ discutibili come le seguenti:

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Testo originale: “she told her husband that she had to realize herself more fully”

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Questa devo ammettere che al mio orecchio non risulta strana, perché sono piemontese come Susanna Basso (e come l’Einaudi): per noi è normalissimo dire per esempio “faccio terza liceo”, ma è un regionalismo, in italiano corretto ci vuole l’articolo (faccio la terza)

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Qui a stonare è la virgola tra il soggetto e il verbo, oltre a quel “giusto” che sembra proprio un calco un po’ pigro del “just” inglese

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Il passato remoto in mezzo alla frase al trapassato mi ha lasciata un po’ perplessa

Ma ci sono anche passi di innegabile bellezza, che rivelano la penna elegante di Susanna Basso, ad esempio:

“Questa non è la storia del mio matrimonio. Quella non la saprei raccontare: non sono in grado di afferrare, né di esporre ad altri gli innumerevoli pantani e i prati verdi e le ventate di aria fresca e le cappe di aria chiusa che ci sono passati addosso.”

Diverso è invece il caso di quando il traduttore ha fatto una scelta ragionata e proprio per questa viene attaccato, come è successo a Claudia Zonghetti per la sua recente ritraduzione del classico Anna Karenina. Paolo Nori, sul suo blog, ha analizzato le prime tredici righe dell’opera e ha “simpaticamente” massacrato le decisioni della collega.

Ecco, questo è uno dei casi in cui, anche se chi muove le critiche è un traduttore e quindi probabilmente possiede le competenze necessarie, l’attacco risulta davvero troppo personale e offensivo per essere ritenuto legittimo. Inoltre le critiche di Nori non sono particolarmente convincenti, come ha spiegato benissimo Leonardo Marcello Pignataro in un suo post su Facebook che mi permetto di citare come esempio di analisi ragionata e fondata.

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Perché tutta questa ansia di criticare, insomma? Ovviamente non capita solo ai traduttori di trovarsi nel mirino della furia altrui, ma tutti questi esempi mi hanno insegnato a mettermi nei panni di chi viene criticato, prima di accanirmi sugli errori degli altri. Perché magari quell’articolo mancante, quella virgola di troppo, quel giro di frase un po’ traballante sono il risultato di mesi di privazione del sonno e di altri passi di meravigliosa fluidità (oppure riproducono un’asperità del testo originale), e quella scelta che a me sembra poco consona potrebbe essere il frutto di incastri, ricerche e compensazioni ragionate.

Avere un’opinione è legittimo, usarla per svilire la fatica altrui no. Sicuramente abbiamo tutti il diritto di esprimere le nostre perplessità su un prodotto commerciale come un libro, che abbiamo acquistato e quindi pagato, ma forse dovremmo fermarci un attimo a riflettere su quello che c’è dietro, prima di partire in quarta con le accuse (a meno che il prodotto non sia scadente in modo scandaloso, ovvio.Un esempio lo trovate qui). Se proprio non riuscite a trattenervi, scrivete in privato alla casa editrice o al traduttore: se le vostre critiche sono fondate, quasi certamente saranno felici di accoglierle e di correggere gli errori nell’edizione successiva.

Pensare sempre di poter fare meglio di qualcun altro è dannoso e inutile: pensiamo invece a dare il meglio quando è il nostro turno, perché la prossima volta al posto di quel traduttore massacrato potremmo esserci noi.

 

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Tradurre Kent Haruf: incontro con Fabio Cremonesi

IMG_20160509_105409Su questo blog non ho mai parlato di Kent Haruf, i cui romanzi ho invece recensito su Solo libri belli. Lo faccio ora perché oggi esce Crepuscolo, il terzo volume della sua Trilogia della Pianura, e qualche giorno fa mi è capitata una cosa pazzesca. Sono stata invitata alla presentazione in anteprima, insieme a blogger e giornalisti – a proposito, non mi considero una “blogger” e se mi chiamate così probabilmente mi offenderò – nella sede della casa editrice che pubblica Haruf, la NN.

Il motivo per cui ne sto parlando qui è che all’incontro – essendo Haruf ahimé defunto – è intervenuto il traduttore Fabio Cremonesi, e di conseguenza si è parlato (anche) di traduzione. Non mi metterò quindi a descrivervi esattamente com’è andato l’incontro, i motivi per cui Haruf piace a tutti, le riflessioni che sono nate riguardo alle tematiche dei suoi romanzi, perché c’è già chi l’ha fatto meglio di come potrei fare io: se siete curiosi di conoscere i dettagli vi rimando al post di Elisa, La Lettrice Rampante. Qui vorrei invece soffermarmi sugli aspetti traduttivi.

Innanzitutto, secondo Cremonesi (e io sono perfettamente d’accordo) i due momenti di maggiore felicità per un traduttore sono quello della consegna – nonostante non significhi liberarsi per sempre del libro, ovviamente, dato che bisogna ancora affrontare la revisione e le bozze – e, prima ancora, quello in cui si riesce a trovare la voce del testo, a entrarci davvero.

Quando gli è successo con Benedizione, il primo volume di Haruf da lui tradotto, pensava di essere a cavallo anche per i libri successivi dello stesso autore. E invece Canto della pianura l’ha spiazzato, perché laddove Benedizione ha uno stile asciutto, minimalista, con un lessico di 5-600 parole, Canto della pianura è più ricco di dettagli, di termini anche tecnici, ha un linguaggio più arioso, con più descrizioni, per quanto si parli sempre di Haruf e quindi di una estrema precisione lessicale e di parole cariche di significati, non di sproloqui esagerati. Ci ha quindi raccontato questo aneddoto divertente in cui si è trovato a consegnare Canto della pianura in estremo ritardo, perché pensava di cavarsela più facilmente avendo già tradotto lo stesso autore pochi mesi prima. Crepuscolo invece è più simile a Canto della pianura, per quanto riguarda lo stile.

Un’altra riflessione degna di nota è che in realtà Canto della pianura, sebbene sia stato pubblicato per secondo da NN (qui le motivazioni), è il primo volume scritto da Haruf, ed era già stato tradotto da Fabrizio Ascari nel 2000 per Rizzoli. Cremonesi ha però sottolineato che la sua traduzione – fuor di modestia – è migliore, perché ha avuto il vantaggio di poter considerare la trilogia nel suo insieme (da Canto della pianura a Benedizione, passando per Crepuscolo, l’autore tende a una scrittura sempre più asciutta, passando dalla nascita alla vita alla morte riducendo sempre più all’osso le descrizioni e il lessico). È quindi interessante notare come, nonostante ogni libro sia a sé stante, conoscere tutta la produzione di un autore può aiutarci a tradurre meglio, a entrare nel suo spirito e a comprendere le sue intenzioni.

Un appunto a parte per i dialoghi di tutti i libri di Haruf: secchi, essenziali, secondo Cremonesi si traducono quasi da soli (“C’è quasi da sentirsi in colpa a metterli sul conto dell’editore!”, ha scherzato). Anche perché in questi romanzi la comunicazione è spesso affidata a gesti e sguardi anziché alle parole. Ecco, tradurre la gestualità è un altro discorso, che è già stato affrontato da altri ma che non credo si sia rivelato un problema con un autore attento ed essenziale come Haruf, o se lo è stato Cremonesi ha avuto la capacità di non farlo notare. Fra l’altro ha definito la scrittura di Haruf “affettuosa ma senza smancerie, calda ma non appiccicosa”, e questa definizione mi è piaciuta moltissimo.

Ultima nota a margine, la moglie di Haruf ha raccontato in un’intervista un paio di buffi aneddoti sul modo in cui il marito concepiva la scrittura: per evitare di farsi distrarre da refusi e punteggiatura, batteva a macchina la prima stesura con un berretto calato sugli occhi, per poi riprenderla e correggerla in un secondo momento. Forse è un’immagine bislacca e romantica, ma adoro immaginarlo mentre lascia che la scrittura fluisca dalle sue mani senza interruzioni. Una specie di write drunk, edit sober. Questo per me si ricollega al discorso sul trovare la voce del testo: anche in traduzione, una volta entrati nello spirito del racconto, spesso si va avanti in modo quasi automatico per non perdere il ritmo, senza badare troppo a refusi ed errori che verranno corretti durante l’autorevisione.

Tuttavia, sempre stando alla moglie, pare che Haruf non credesse nell’“ispirazione”: per lui scrivere era un lavoro duro, e si imponeva di farlo ogni giorno, che ne avesse voglia o meno. Ecco, anche qui penso valga lo stesso per la traduzione: malgrado ci siano giorni in cui persino pulire il forno sembra più divertente e appetibile che tradurre l’ennesimo capitolo sull’induismo o sui ghiacci della Groenlandia, è solo con la costanza e la voglia di fare bene il nostro lavoro che riusciremo a dimostrare che meritiamo incarichi più interessanti.

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Ringrazio quindi la NN per questo bellissimo incontro, sebbene io mi trovi molto in imbarazzo in queste situazioni “sociali”. E li ringrazio anche per averci omaggiato, oltre che di una copia di Crepuscolo, anche del nuovo libro di Jenny Offill (altra scrittrice che adoro) e di una serie di gadget che sto già sfruttando al massimo. La prossima settimana si terrà la Kent Haruf Week, quindi se riuscite partecipate ad almeno uno degli eventi organizzati in giro per l’Italia, perché è un autore davvero imperdibile. E se non avete letto i suoi libri correte a procurarveli: da oggi, con Crepuscolo, la trilogia è completa!

 

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I dieci momenti più difficili per un traduttore

576530_498652033526943_21958116_nDisclaimer: questo post è in gran parte ironico. Non è mia intenzione lagnarmi di un lavoro che amo, anche se a volte la mancanza di uno stipendio fisso si fa sentire.

Fare il traduttore, che sogno! Lavorare da casa, guadagnarsi da vivere picchiettando sui tasti del computer, leggere libri in anteprima, trovarsi sempre di fronte a sfide nuove e interessanti. È un mestiere circondato da una certa aura di romanticismo. Ma è sempre tutto così rose e fiori? Senza arrivare a parlare di vita agra, ecco dieci momenti in cui un traduttore non può fare a meno di sentirsi un filino irritato:

  1. Quando sei a metà di una frase complicatissima, ti è appena venuta un’illuminazione su come risolverla e in quel momento suona il postino, oppure ti ricordi di aver lasciato la pentola sul fuoco o qualche altra situazione da risolvere immediatamente, e allora salti su continuando a ripeterti la soluzione della frase per non dimenticarla. E puntualmente, appena torni davanti al pc, te la sei dimenticata.

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  1. Quando ti chiedono che lavoro fai e la tua risposta incontra sguardi vuoti o, in alternativa, ti chiedono se riesci a viverci, perché andiamo, un lavoro da casa non può essere un vero lavoro. Cioè, stai in pigiama tutto il giorno? Oppure, se rispondono con entusiasmo, danno per scontato che tu sappia come minimo cinque lingue.
  1. Quando fai una prova di traduzione per una casa editrice importante, finalmente, e non la passi. Anche se ti dicono che hai fatto un ottimo lavoro, anche se il collega a cui hanno assegnato il lavoro ha vent’anni d’esperienza in più di te, anche se ti assicurano che ti terranno in considerazione per il futuro, è sempre un colpo al cuore.
  1. Quando confondono traduttori e interpreti. E succede praticamente sempre.

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  1. Quando devi sollecitare un pagamento. Forse il momento più odioso per qualsiasi freelance, quello in cui devi ricordarti che anche se non hai uno stipendio fisso alla fine del mese meriti comunque di essere pagato per il tuo lavoro. Nei tempi stabiliti. Eppure ti ritrovi quasi a chiedere scusa per avere quello che ti spetta.
  1. Quando mandi cv o proposte mirati, ben fatti, che ti sono costati tempo e fatica, e non ti arriva una risposta manco a pagarla.
  1. Quando i clienti ti chiedono “uno sconticino”. Come se lo chiedessero anche al dentista o all’idraulico, e probabilmente lo fanno pure. Tenere duro, sempre: il nostro lavoro vale quello che abbiamo stabilito, e non un euro di meno.
  1. Quando un amico ti chiede di tradurgli al volo una frase che non capisce e tu non conosci il significato di un termine specifico ma non puoi correre a sfogliare il dizionario, devi dire “non lo so” e vorresti sotterrarti.

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  1. Quando vai a un incontro per traduttori o leggi uno scambio sui social e ti senti immensamente ignorante. Perché non si può sapere tutto, ma ogni tanto ti sembra di non sapere davvero nulla.
  1. Quando non sai come tradurre un gioco di parole, chiedi aiuto a un amico o su Facebook e te lo risolvono in tre minuti. Senza aver studiato traduzione.

Ecco, queste mi sono capitate tutte, ma sicuramente ce ne sono altre mille che varrebbe la pena citare. Per voi quali sono – o sono stati – i momenti in cui avete dovuto contare fino a dieci e respirare profondamente per mantenere la calma?

 

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Oltre i primi passi

formentiniIeri sono stata a un incontro molto interessante a cura di AITI e STradE che si è tenuto al Laboratorio Formentini, a Milano. Giovanni Zucca ha moderato un incontro fra giovani traduttori che sono andati “oltre i primi passi”, ossia sono riusciti a fare breccia nel mondo dell’editoria, spesso considerato inaccessibile.

I partecipanti erano Francesca Bononi, laureata in Traduzione a Roma, che ha cominciato traducendo una guida turistica ma poi ha trovato un editore interessato all’autrice su cui ha svolto la tesi di laurea; Laura Bortoluzzi, anche lei laureata in lingue, che ha cominciato a tradurre dopo aver vinto il concorso In Altre Parole organizzato dalla Bologna Children’s Book Fair; Cristina Gerosa, editor di Iperborea, che dopo gli studi classici ha vissuto molto all’estero e, tornata in Italia, ha incontrato per caso i futuri fondatori di ISBN, con i quali ha lavorato per quattro anni svolgendo poi praticamente tutti i ruoli presenti in una casa editrice; Claudia Manzolelli di Rizzoli Ragazzi, che ha cominciato con uno stage di sei mesi non retribuito in RCS; Enrico Passoni, anche lui laureato in traduzione e specializzato in lingua galega, che ha iniziato a tradurre grazie ai contatti stabiliti all’università e alla Fondazione Mondadori, dove ha frequentato il master in editoria per poi fare uno stage da Marco Tropea Editore; e infine Andrea Stringhetti, laureato in svedese, che inizialmente ha tradotto molto per la camera di commercio italosvedese e poi ha vinto il concorso In Altre Parole sopra citato, entrando così nel mondo dell’editoria.

Dopo le presentazioni, il discorso si è spostato sull’importanza della formazione per un traduttore editoriale. Sono stati tutti concordi nell’affermare che una formazione specifica sia fondamentale, ma non tanto quella che deriva dagli studi universitari quanto tutto ciò che viene dopo la laurea: master, seminari, corsi di formazione, workshop, fiere, atelier… una formazione continua, insomma. Per fare i traduttori la teoria serve relativamente, non è detto che chi non l’ha studiata non possa diventare un ottimo traduttore. Francesca Bononi ha infatti sottolineato che la cosa più importante è la pratica, l’esercizio, perché il testo è materia e va letteralmente lavorato.Farlo sotto l’occhio attento di un professionista, poi, è l’ideale.

Enrico Passoni ha aggiunto che è importante avere delle conoscenze pregresse, quindi un buon bagaglio culturale, e mantenere fresca la propria percezione della lingua italiana, leggendo non solo libri tradotti e cercando di evitare il “traduttese”, in modo da essere in grado di riprodurre registri e sfumature differenti. Bisogna inoltre essere consapevoli della prassi editoriale, saper dosare le proprie energie e conservarne anche per la fase di revisione.

Sicuramente la formazione non basta: molti aspiranti traduttori, come ha detto giustamente Andrea Stringhetti, scrivono male persino le mail di presentazione, e per questo problema non c’è corso che tenga. La parola è poi passata alle due rappresentanti delle case editrici, che hanno sottolineato come, nella scelta di un nuovo traduttore, la sua formazione sia soltanto un valore aggiunto: gli esordienti vengono selezionati tramite prova di traduzione, quindi devono dimostrare sul campo la propria professionalità.

Ed ecco la domanda da un milione di dollari: come presentarsi agli editori? I traduttori presenti hanno confessato di non essere molto esperti in questo campo perché sono arrivati ai primi lavori per vie traverse, non presentandosi ma venendo presentati. È certamente questo il modo più semplice per entrare nel mondo dell’editoria: crearsi una rete di contatti, che non significa essere raccomandati nel senso peggiore del termine, ma frequentare corsi, seminari, workshop, fiere e così via e farsi notare come bravi traduttori, mostrarsi propositivi, evidenziare le proprie competenze. Assolutamente da evitare l’invio a tappeto di cv a indirizzi tipo info@casaeditrice.it, perché non portano a nulla. Un’altra tecnica di approccio potrebbe essere quella di entrare come lettori, ossia facendo schede di valutazione per una casa editrice. Si viene pagati poco ma si comincia a stabilire un contatto.

Fondamentale scrivere una bella mail di presentazione, evitando errori e refusi, ovviamente, ma anche cercando di “uscire dalla massa”, di valorizzarsi riassumendo chi siamo, i nostri gusti letterari, le nostre esperienze, la nostra personalità. È anche importante spiegare perché ci stiamo proponendo proprio a quella casa editrice: dimostrare di conoscerne il catalogo è sempre un valore aggiunto. Un altro consiglio è stato quello di aspettare di finire almeno l’università, di sentirsi pronti per evitare di fare una bella proposta in un momento in cui non siamo all’altezza di portarla fino in fondo.

Il tempo stringe, e si passa già alle domande del numeroso pubblico presente. La prima è molto semplice, eppure complicata perché non esiste una risposta univoca: come presentarsi alle fiere? Le due editor hanno evidenziato che le fiere sono momenti molto caotici per gli editori, è quindi meglio seguire gli incontri che hanno organizzato (presentazioni di libri, seminari…) e avvicinarli lì, anziché fare la posta allo stand. Inoltre le fiere sono un’ottima occasione per parlare con altri traduttori e anche con editori stranieri, che potrebbero interessarsi a noi come professionisti e decidere di mandarci libri da proporre. Importantissimo anche raccogliere e studiare i cataloghi delle varie case editrici.

Un’altra domanda dal pubblico: come trovare le famose “botteghe editoriali”? Cristina Gerosa ha risposto che per le lingue “minori” è più facile, per esempio l’istituto di cultura olandese prevede seminari e mentorship, ma in generale è bene ricercare laboratori specifici condotti da professionisti, come quello al Castello di Fosdinovo, oppure Babel , il corso di Misano Adriatico, la Scuola estiva di traduzione (e, aggiungo io, il corso dell’Agenzia Tuttoeuropa). Insomma, non aspettarsi che i lavori piovano dal cielo ma attivarsi per conoscere le persone giuste.

L’incontro si è concluso con il consiglio di mandare proposte anche a più editori contemporaneamente, di non nascondere nessun tipo di esperienza di traduzione, anche non canonica o non letteraria, e soprattutto con l’invito di Enrico Passoni a non accettare mai tariffe al di sotto del 12€ a cartella: si parla sempre poco di soldi, ma tradurre è un lavoro, e nemmeno dei più semplici.

È stato un confronto davvero molto interessante, anche per me che pur avendo già una ventina di titoli vari nel cv mi considero ancora un’esordiente (ho 31 anni, confermatemi che posso ancora permettermelo, vi prego!). Unico neo dell’incontro, dal mio punto di vista, l’utilizzo spregiudicato del “piuttosto che” nel senso di “oppure” da parte di professionisti e aspiranti professionisti del mondo dell’editoria.

Il pubblico era in prevalenza molto giovane. Uscendo, ho colto il discorso di alcune ragazze che commentavano: ma insomma, questi editori vogliono che scoviamo un libro inedito, ci informiamo sui diritti, facciamo la scheda, superiamo la prova… tutto noi dobbiamo fare?

Ecco, sì, il bello di questi incontri è che servono anche a scoraggiare chi non si rende conto di quanto sia impegnativo questo lavoro, e di quanta perseveranza richieda. Grazie a Giovanni Zucca e al laboratorio Formentini per questa importante occasione di dialogo!

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Diario di bordo: translating Joe Brainard – parte 3

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Foto: Lindau

Ora che è andato in stampa posso finalmente dirlo con certezza: entro fine mese uscirà il libro di Joe Brainard su cui ho scritto gli ultimi due post di questo blog – parte 1 e parte 2 – e si intitolerà Autoritratto. Lo trovo un titolo perfetto per l’opera di un pittore/artista che scrive di sé, dei suoi pensieri, delle sue manie, delle sue riflessioni quotidiane talvolta banali e spesso ironiche, dissacranti, molto introspettive ma che strizzano sempre l’occhio ai suoi amici e ai lettori.

 

Ma veniamo alla traduzione, o meglio, alle sue ultime fasi e alla revisione. Rileggendo il testo dopo aver finito di tradurlo, l’ho toccato davvero pochissimo. Forse perché Joe l’ha scritto di IMAG8622_1getto, ed era così che andava tradotto. Ho modificato qualche parola qua e là, limato un po’ le frasi, ma non ho tolto molte delle sue adorate ripetizioni né ho cercato di “normalizzarlo”. Non dico di aver mandato alla casa editrice una prima bozza, ma non ho voluto guastare la spontaneità del testo ricamandoci troppo sopra. Mi sono concentrata più che altro su come rendere al meglio alcune frasi che in inglese sono perfettamente naturali ma in italiano perdono ogni forza e ritmo, come il terribile passaggio da self-consciousness a self-awareness nell’introduzione di Ron Padgett.

Inoltre, poiché sapevo che avrei lavorato con redattori con cui ero certa di poter dialogare, nella mia traduzione ho lasciato evidenziate alcune frasi che mi avevano lasciata perplessa, che temevo di non aver capito o reso appieno. Il confronto con Alberto Del Bono della Lindau è stato davvero prezioso: in un lungo pomeriggio in redazione abbiamo sviscerato i problemi principali, trovando in praticamente tutti i casi una soluzione che ci convinceva entrambi. Qualcosa, però, è rimasto ancora una volta insoluto. Più che altro didascalie e frasi senza contesto, le più temute da un traduttore, che quando gli chiedono “cosa vuol dire questa cosa?” è abituato a rispondere invariabilmente “dipende dal contesto”. (E non è una scusa, dipende davvero dal contesto, ragazzi, su.)

Foto: Lindau

Foto: Lindau

Tanto per fare un esempio, una di queste frasi è la didascalia di un ritratto di Joe fatto da un suo amico: Joe knits up a careful tennis shoe white thread. Parole comunissime, perfettamente traducibili prese una per volta, ma piazzate lì in un modo che alcuni amici madrelingua mi hanno confermato essere “strano”, niente affatto chiaro; di conseguenza tradurre questa frase così lapidaria risultava veramente arduo. Inoltre – e questa è una cosa terribile per me che sono sempre così insicura –, poiché la didascalia è scritta a mano dall’autore, nell’edizione italiana non verrà cancellata: in questo e altri casi, la traduzione sarà a fondo pagina, ma il lettore potrà vedere anche la frase originale. Capite bene come in questi casi il terrore di sbagliare si moltiplichi.

Per fortuna avevamo a disposizione il curatore dell’edizione originale, nonché amico intimo di Joe, che ha confermato la stranezza della costruzione inglese ma ci ha spiegato l’immagine: al momento del ritratto Joe stava riparando una scarpa da tennis (careful?) con del filo bianco. Potevamo arrivarci, ma chi si sarebbe arrischiato a un’interpretazione così netta? Ecco, questo è uno dei casi in cui consultare l’autore o chi per esso (ah, poter scrivere a Joe…) si è rivelato fondamentale. Ron Padgett ci ha chiarito questo e un paio di altri dubbi, facendoci dormire sonni più tranquilli (e se qualche lettore o traduttore si sentirà in dovere di contestare le nostre scelte, beh, perlomeno avremo un’opinione autorevole dalla nostra!).

Foto: Lindau

Foto: Lindau

Dopo la revisione con Alberto, il libro è passato nelle mani di Paola Quarantelli, editor di Mi ricordo (i richiami a quel testo erano moltissimi, sarebbe stato impossibile tradurre questo libro senza tenere conto delle scelte fatte allora, e grazie al cielo l’avevo tradotto io), quindi è stata necessaria un’altra sessione di discussioni, riflessioni, cambiamenti dell’ultimo minuto e accordi conciliatori. La traduzione è così: se il libro fosse stato riletto da una quarta persona, saremmo ancora seduti attorno a un tavolo a discutere. Ed è una cosa che mi piace moltissimo di questo lavoro. Se la traduzione perfetta non esiste, è comunque incredibilmente stimolante vedere in che modo teste diverse interpretano e sentono uno stesso testo.peopleIMG_20151001_115043

Sono convinta che alla fine abbiamo fatto davvero un buon lavoro, e sarà emozionante tenere il libro tra le mani. Spero che riesca a emozionare anche voi, che lo leggiate col sorriso sulle labbra, che capiate cosa voleva dire Brainard quando l’ha scritto, che la traduzione abbia reso giustizia al suo linguaggio scarno ed evocativo insieme. Spero che Joe conquisti prima la vostra attenzione e poi, pian piano, una pagina dopo l’altra, il vostro cuore. Se lo merita, ed è stato un vero onore essere la sua traduttrice.

La cosa importante è che sono un pittore e uno scrittore. Finocchio. Insicuro riguardo al mio aspetto. E sento un po’ troppo il bisogno di far contenta la gente. Lavoro molto. Darei il braccio destro per essere follemente innamorato. (Beh, diciamo il sinistro.)

Come si fa a non amarlo?

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Diario di bordo: translating Joe Brainard – parte 2

Senza nomeEccoci alla seconda puntata del diario di traduzione dei Collected Writings di Joe Brainard. Se vi siete persi la prima, la trovate qui.

Una delle tante cose belle di tradurre Joe è che in genere, quando lavoro sui miei soliti saggi, continuo a distrarmi, sono irrequieta, procedo per inerzia, comincio a fare ricerche e poi mi perdo, magari faccio sei o sette pagine senza mai spostare lo sguardo dallo schermo ma poi vado avanti una frase per volta per quello che mi sembra un secolo. Con Joe invece mi metto al pc e a un certo punto mi accorgo che intorno si è fatto tutto buio e non vedo neanche più le mani sulla tastiera, sono le otto e mezza e non ho ancora cenato. È come cadere nella tana del coniglio bianco.

A questo punto ho la sensazione di aver appena cominciato il libro, e così controllo velocemente quanto ho tradotto finora. Il risultato mi stupisce: 50 cartelle senza nemmeno accorgermene. Mi sembrava di averne tradotte una decina. Sono scivolata tra le pagine con una facilità sorprendente. È una cosa stranissima, perché di solito per ottenere un testo scorrevole e un’apparente facilità di scrittura il traduttore fa uno sforzo notevole. E ciò mi fa capire che questo libro ha veramente tutti i numeri per farsi leggere e amare.

Ma veniamo al dunque. Certi brani fanno davvero girare la testa (May read, she knew how to read, that a bird’s feather was the strongest thing in nature for its size and weight and we tried it out and we decided that tho this might be true it wasn’t saying much because we found breaking bird feathers quite easy and extremely enyojable and we enjoyed enjoyable things in the most enjoyable way you can imagine enjoyable things as being enjoyed) ma se ci si lascia trascinare, quando si arriva alla fine del singolo testo si scopre di aver capito esattamente cosa voleva dire. E di solito lo si capisce col sorriso sulle labbra. Ciò non vuol dire che si sappia bene come riprodurlo in italiano, ma il bello è anche questo. yellowfaces

Uno dei miei problemi principali nel corso della traduzione: le frasi brevissime; in certi brani ogni pensiero è interrotto da un punto, cosa molto americana e molto da Joe. Ma il problema non è solo lo stile. È anche che a volte sono buttate lì senza ulteriori riferimenti, magari con un pizzico di slang che le rende estremamente ambigue. Avevo già affrontato questo problema in Mi ricordo, ma generalmente con qualche ricerca (ok, un bel po’ di ricerche) riuscivo a capire di cosa stesse parlando. Qui più che riferimenti oscuri si tratta di pensieri sconnessi e tutti suoi, magari inseriti in una riga isolata da tutto il resto.

Per esempio, cos’avrà voluto dire con “I don’t want you in my pocket.”? E a chi si rivolge, così all’improvviso, se questo è il suo diario e sta parlando di tutt’altro? In realtà usa moltissimo “you”, e non solo come impersonale tipico della lingua inglese (tanto per fare un esempio, dice anche “I love you”, quindi ha in mente uno o più ipotetici lettori). Ho optato quasi sempre per un pubblico collettivo, un “voi” al posto di un “tu” che in certi pezzi proprio non ci stava. Ma a volte Joe mi spiazza, anzi, più spesso di quanto sarebbe sano ammettere. Sarà sicuramente un aspetto su cui riflettere una volta finito il libro, ma per adesso procediamo.

Mikko Kuorinki, Joe Brainard: Poem

Mikko Kuorinki, Joe Brainard: Poem

Ora sta parlando di certi “allspice trees”, non so cosa siano, vediamo un po’… Ah, ecco, alberi di pimento, o pepe della Giamaica. Benissimo, perfetto. Ecco, però subito dopo dice che credeva che “allspice” indicasse un miscuglio di tutte le spezie esistenti e invece si tratta di una sola. Accidenti, bisognerà trovare un modo per non perdere questo fraintendimento. Visto che la parola Giamaica compare più volte poco prima, per ora metto alberi di pimento ed evidenzio in giallo. Vediamo che dice dopo… “Also there are pimento trees”. Ma porc… Faccio ulteriori ricerche, niente: sembra proprio che pimento e allspice siano la stessa cosa. Che faccio, nel primo caso mi invento una traduzione letterale per allspice? No, mi sembra troppo forzato, forse potrei lasciarlo in inglese, tanto spiega subito di cosa si tratta, e in questo modo non si perderebbe il gioco di parole. Per ora farò così. Evidenziato anche questo.

Proseguo nella traduzione incontrando alcune parti che mi fanno disperare: ripetizioni infinite, che in inglese stanno bene e danno il senso del flusso dei pensieri, ma in italiano sono terribili. Però a eliminarle mi sembra di tradire la scansione del discorso, la litania rassicurante, il labirinto di pensieri ripiegati su se stessi in cui spesso Joe si rifugia per poi uscirne con una meravigliosa frase a effetto. In ogni caso è impossibile annoiarsi, è molto vario, a ogni pagina è come tradurre qualcosa di completamente nuovo, una nuova sfida.

Alcuni pezzi filano lisci come l’olio. Su altri devo rompermi la testa, e non solo per alcune frasi isolate che risultato un po’ oscure o particolarmente incomprensibili, ma proprio per la qualità di certi brani, che forse solo entrando nella testa dell’autore sarebbe possibile comprendere davvero. Ecco una frase che non capisco proprio. Non ha alcun senso. Leggo quella successiva: “I told you I was stoned”. Ah beh, grazie Joe. È vero, me l’avevi detto all’inizio del brano, e una risata me l’hai strappata.

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Ora una battuta: Joe è sul treno e sta fumando, una signora stizzita gli dice: “This is a No Smoking car.” E lui risponde: “Oh, and where are the cars that smoke?”. Ecco, solo che in italiano si parla comunemente di carrozza, che è femminile e di solito singolare, se intendiamo quella in cui ci troviamo: mi sembrerebbe strano rimproverare qualcuno dicendogli “queste sono (le) carrozze (per i) non fumatori”. Inoltre, sia “fumatori” che “non fumatori” sono maschili (e plurali). Ci penso un po’, rifletto su “fumanti” che ovviamente è improponibile, poi rinuncio a “per i” e scelgo “vagoni non fumatori” (risposta: “e dove sono i vagoni che fumano?”), anche se “vagoni” mi sa molto di old-fashioned e non sono del tutto soddisfatta né del termine né tantomeno del plurale. Ma in questo caso il gioco di parole vale una piccola forzatura. Sarà eccessiva? Speriamo di no.

Forse in questo post ho messo troppa carne al fuoco, ma Brainard è così: accumula, costruisce, aggiunge, dettaglia, divaga, straparla, e quando pensi di averlo ormai capito (o di aver perso totalmente il filo) riesce sempre a stupirti con qualcosa di nuovo. La fase di revisione, in cui mi toccherà sciogliere tutti i problemi rimasti in sospeso, sarà una bellissima tortura.

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Diario di bordo: translating Joe Brainard – parte 1

Brainard
Nonostante agosto non sia il mese più indicato per tornare ad aggiornare il blog, ho deciso di pubblicare una sorta di diario di traduzione del testo che sto traducendo al momento, una raccolta di scritti vari di Joe Brainard. Scriverò sicuramente altri post sull’argomento, ma a cadenza del tutto casuale, ogni volta che si presenteranno problemi o riflessioni che mi sembrano interessanti.

Quando dalla casa editrice mi arriva una mail con oggetto “Brainard”, entro già in fibrillazione: so che oltre a Mi ricordo, pubblicato un anno fa, esiste una raccolta di altri scritti di Joe. Non li ho ancora letti approfonditamente, ma mentre traducevo il primo ho raccolto abbastanza informazioni da poter essere certa che ritroverò anche qui lo spirito dell’autore che finora mi è piaciuto di più tradurre. È fatta: parte di quella raccolta verrà pubblicata in italiano.

Non so ancora come si intitoleranno da noi questi Collected Writings, anzi, questa “selezione di”, e già mi scervello per immaginare un titolo che possa richiamare l’attenzione di lettori poco avvezzi a scegliere libri che non siano romanzi né saggi né raccolte di racconti. Perché questo volume è un po’ tutte e tre le cose, più una specie di diario intimo che raccoglie pensieri sparsi, disegni e riflessioni, incredibilmente significativi e toccanti.

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Il file originale consta di 576 pagine (Mi ricordo compreso): decisamente troppe per i lettori di cui sopra. Dalla casa editrice mi mandano una cernita di brani, li scorro, rido e piango per ciascuno di essi, sono già emozionata. Non posso fare a meno di leggere anche i testi scartati, propongo qualche piccola modifica alla selezione, una telefonata e via, ecco la raccolta ufficiale, si comincia a tradurre.

Scorro il corposo file fino al primo brano scelto. In realtà nell’originale si trova subito dopo Mi ricordo, quindi idealmente riprendo il lavoro da dove l’avevo lasciato. Fin dalle prime parole, scritte da un Brainard appena diciannovenne, ritrovo un amico. Scivolo con lui nei meandri della sua mente, trovando una freschezza e un senso di riconoscimento che mi rendono il compito molto piacevole. Faccio molta attenzione, perché voglio rendergli giustizia.

(Frasi brevissime, oddio, funzioneranno anche in italiano o sarà meglio unirne qualcuna qua e là?) Mi ricordo (sic) di quando ero io, ragazzina, a tenere un diario per sfogarmi, e cerco di entrare nel personaggio. Non mi è molto difficile, in realtà, e anche questo mi spaventa: starò inserendo qualcosa di mio, qualcosa che nell’originale non c’è?

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Controllo ogni nome, ogni data, ogni riferimento. Ora sta scrivendo durante la notte di Natale, lo dice esplicitamente, poi però afferma di aver passato il Capodanno con un’amica. Ma il Capodanno viene dopo il Natale. Sarà un errore? Si riferirà al capodanno precedente o avrà sbagliato tempo verbale? Oppure “Anne and I were together New Year’s Eve” ha qualche altro significato recondito? Non mi faccio prendere dal panico, segno e vado avanti, per avere di fronte il quadro completo. Joe, non mettermi i bastoni tra le ruote, che voglio riprodurti al meglio.

Guarda un po’ che effetto mi fai: leggo due pagine del tuo diario e già ne sto scrivendo uno mio.

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Lost in translation, ovvero: la storia di una proposta editoriale

indexPerdonate il titolo banale e forse fuorviante: in questo post non parlerò di tutto ciò che va perduto durante l’atto traduttivo. Vi spiegherò invece perché non scrivo da novembre, subito dopo aver festeggiato il compleanno del blog.

Beh, in realtà la risposta è molto breve: negli ultimi sei (otto) mesi non ho avuto tempo di dedicarmici. Perché mi sono trasferita a 130 km di distanza con tutto quello che comporta insegnare a Torino un giorno alla settimana e vivere vicino a Pavia il resto del tempo, ma anche – e per fortuna – perché ho avuto molto da tradurre.

Fra i libri su cui ho lavorato in questo periodo, vorrei dedicare un’attenzione particolare a Écue-Yamba-Ó di Alejo Carpentier, e vi spiego subito il perché: questo romanzo ha una storia piuttosto travagliata. Carpentier è l’autore su cui ho fatto la mia tesi magistrale, confrontando le diverse traduzioni esistenti di alcuni dei suoi romanzi. Le prime erano piuttosto vecchiotte, le ritraduzioni, invece, erano a cura di Angelo Morino, il mio professore universitario (e immenso traduttore) scomparso prematuramente nel 2007. Proprio Morino aveva iniziato tempo addietro, insieme alla mia relatrice di laurea Vittoria Martinetto, a tradurre le prime pagine di Écue-Yamba-Ó, primo romanzo di Carpentier.

Questo libro dal titolo così strano non ha visto la luce fino a pochi giorni fa. Con la scomparsa di Morino, il progetto era stato accantonato finché Vittoria non mi ha proposto di tradurlo insieme, per poi cercare un editore che volesse pubblicarlo. L’abbiamo quindi tradotto all’incirca nel 2010, e ci siamo messe alla ricerca di una casa editrice interessata. Einaudi e Sellerio, che avevano pubblicato gli altri romanzi di Carpentier, l’hanno rifiutato perché “poco commerciale”, pur elogiandolo molto (conservo ancora la dettagliata risposta dell’editor di Einaudi che l’ha valutato in termini decisamente positivi. Cito testualmente, sapendo di non fargli un torto: “anche in questo romanzo giovanile Carpentier è già un gigante della scrittura”).

A un certo punto siamo riuscite ad accordarci con una piccolissima casa editrice fiorentina che era molto interessata al libro, ma la Fundación Carpentier di Cuba, che detiene i diritti dell’opera (aspiranti traduttori, ricordate: prima di fare una proposta editoriale informatevi sempre riguardo ai diritti!), non l’ha ritenuta abbastanza prestigiosa per pubblicare un autore come Carpentier.

Insomma, da un lato i “grandi” non lo volevano perché “fuori moda”, dall’altra i piccoli editori venivano scartati perché forse non in grado di pubblicizzarlo al meglio… E così per anni l’abbiamo lasciato nel cassetto, un po’ deluse.

Quando però Lindau, con cui collaboro da diverso tempo, ha inaugurato la collana di narrativa Senza Frontiere, Carpentier mi è sembrato una scelta perfetta e naturale. Il direttore editoriale per fortuna la pensava come me, la Fundación stavolta ha accettato, e così io e Vittoria abbiamo ripreso in mano la traduzione terminata quasi cinque anni prima. Un lavoro gomito a gomito che come al solito mi ha arricchita moltissimo, complicato ma affascinante: ore e ore passate a rivedere, limare, aggiustare, cambiare per poi tornare sui nostri passi, cercare improbabili riferimenti online, decifrare e confrontare.

Il risultato è uscito pochi giorni fa, dopo un’attenta revisione da parte di Paola Quarantelli di Lindau e di Vincenzo Perna, esperto di musica afrocubana (perché sì, nel libro c’è tanta musica, tanto ritmo non solo linguistico), e come potete immaginare ne siamo oltremodo felici. Speriamo che a Carpentier venga finalmente tributato il giusto merito anche per questo romanzo giovanile ma già ricco di fascino.

Morale della favola: non scoraggiatevi mai, una proposta di traduzione rifiutata per anni un giorno potrebbe trovare la sua perfetta collocazione, quella che stava aspettando fin dall’inizio.

Un’ultima cosa: a settembre partirà la nuova edizione del corso online Tradurre per l’editoria. Siccome sono una delle tutor, posso dire di essere molto soddisfatta di come sono andate le edizioni precedenti, e a giudicare dai commenti degli iscritti, che trovate sul sito (e non li abbiamo inseriti noi, giuro!), lo è anche chi vi ha partecipato. Vi invito a consultare il programma se siete alla ricerca di un corso “pratico” ma non potete spostarvi da casa. Questo corso è un altro dei motivi per cui non ho avuto il tempo di aggiornare il blog: è impegnativo e arricchente anche per me.

Spero di riuscire ad aggiornare presto il blog, anche se mi aspetta un’estate di fuoco e niente vacanze. Guardiamo il lato positivo, però: diventare traduttori è possibile, se si ha abbastanza tenacia.

 

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Due anni di blog!

cake_bookOggi questo blog compie due anni. Mi sembravano di più, lo ammetto, eppure il primo post è datato proprio 13 novembre 2012. Forse è perché covavo da molto tempo l’idea di aprirlo, o più probabilmente perché la traduzione editoriale mi accompagna da quando ho finito l’università, anzi, da quando c’ero ancora dentro, da quel corso tenuto da Angelo Morino e Vittoria Martinetto che mi ha fatto capire che cosa volevo diventare “da grande”. In un corso di laurea pieno di esami che mi lasciavano insoddisfatta, se non scoraggiata (“scordatevi di diventare traduttori letterari!”), quelle lezioni sono state per me un faro, una conferma che il mio amore per i libri, per le lingue e per la scrittura poteva trasformarsi in qualcosa di più. Da quel momento in poi ho assorbito come una spugna tutti i consigli che mi sono stati dati, tutte le dritte, le correzioni, le batoste, e ho cercato di condensarle in parte in questo spazio virtuale.

Grazie a questo blog e alla relativa pagina Facebook ho cominciato a collaborare con La Matita Rossa, ho conosciuto altri traduttori e tantissimi aspiranti tali, mi sono resa conto che ciò che do per scontato non è scontato affatto, ho imparato e mi sono chiarita le idee, ho dato e chiesto pareri, mi sono appassionata sempre di più a un mondo affascinante e burrascoso, e soprattutto ho trovato la forza di non arrendermi allo scoramento.

Oggi il blog ha quasi sessantamila visite, 2060 fan su Facebook e 263 follower via e-mail. Un esercito di persone appassionate con un sogno grandissimo, a dimostrazione del fatto che, per quanto bistrattati, i traduttori non sono affatto invisibili. C’è tutto un mondo di persone in grado di riconoscere una buona traduzione, di scandalizzarsi di fronte alle tariffe da fame, di farsi valere, di lottare per fare quello che vogliono veramente, nonostante tutte le difficoltà.

Forse la mia è una visione un po’ troppo romantica: l’editoria oggi è in crisi, i lettori sono in calo, le case editrici falliscono, non pagano, traducono sempre meno, fanno proposte indecenti. Ma almeno oggi lasciatemi sognare un po’, lasciatemi credere che il lavoro culturale un giorno verrà riconosciuto e apprezzato, in termini sia morali sia economici. Perché sognare è bello, ma potersi permettere di vivere del proprio lavoro lo è ancora di più.

Auguri al mio blog e in bocca al lupo a chiunque voglia intraprendere questo meraviglioso mestiere: alla vostra!

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Il giovane Holden di Matteo Colombo

holdenAnche stavolta una premessa: avevo intenzione di scrivere un post confrontando attentamente alcuni passaggi delle due traduzioni principali del giovane Holden, quella di Adriana Motti del 1961 e quella di Matteo Colombo del 2014. Poi però, mentre leggevo, sono stata completamente rapita e quindi buonanotte, ho scritto soltanto un post sul libro in generale, che ho pubblicato sull’altro mio blog, Solo libri belli. Lo incollo qui perché si parla anche di traduzione.

Il fatto che un capolavoro come Il giovane Holden, con tutto l’immaginario che rappresenta, sia stato quest’anno ritradotto da Matteo Colombo è una notizia tutt’altro che trascurabile.

Ritradurre i classici è sempre una sfida e un pericolo, ma tanto di cappello a Colombo: ha centrato in pieno l’obiettivo. Lo dico senza mezzi termini: la sua traduzione è limpida e necessaria.

Avevo letto Il giovane Holden nella traduzione di Adriana Motti intorno ai 13-14 anni, rubandolo a mio fratello e rimettendolo esattamente nello stesso posto sul suo scaffale prima che tornasse a casa, la sera. A tappe forzate quindi, senza potermici abbandonare quando ne avevo voglia, ma forse con un valore aggiunto dato dal sotterfugio (ma non glielo potevi chiedere? mi direte voi, e no, rispondo io, avevo 13 anni, chi li capisce gli adolescenti).

Ecco, chi li capisce? Holden, ovviamente, perché con i suoi sedici anni è ancora un adolescente, un ragazzone alto, già con i capelli bianchi su un lato, stufo di tutto, ma con i timori e le frustrazioni tipiche della sua età. La trama penso la conosciate tutti: Holden Caulfield viene cacciato dalla sua prestigiosissima scuola perché è stato bocciato in quasi tutte le materie (tranne che in inglese, perché gli piace un sacco leggere e via dicendo), ma non può ancora tornare a casa perché i suoi genitori non lo sanno. E così si trova a vagare in una gelida New York, sotto Natale, tra bar squallidi, alberghi, telefonate a vecchie conoscenze – che immancabilmente lo deludono – e solitudine estrema. Solo la sua sorellina Phoebe è all’altezza delle sue aspettative: arguta, intelligente, sicuramente bambina ma anche un po’ mamma, affezionata al fratello quanto lui lo è a lei. Holden non sa cosa vuole, non sa cosa gli piace, ma guai a farglielo notare, perché si deprime facilmente. Un adolescente fatto e finito, insomma. La sua avventura è tragicomica, amara ma divertente, vivace ma serissima.

E il bello è che Matteo Colombo l’ha reso davvero un ragazzo di oggi, anzi, senza tempo, senza tutte le espressioni datate della prima traduzione, come il celebre “e vattelapesca”, anche perché – mentre leggevo ho sbirciato sia la traduzione di Motti sia l’originale – Holden non parla affatto in modo ricercato. I vari “e via discorrendo”, “e vattelapesca” erano espressioni semplici come “and all”. Semplicemente ha le sue manie linguistiche, come tutti gli adolescenti usa spessissimo certe espressioni cui è affezionato (prontamente riprese dalla sorellina, che, è il caso di dirlo, mi fa morire).

E quindi questo “nuovo” Holden è davvero giovane, davvero fragile, davvero unico e allo stesso tempo universale, fresco e vivido come se fosse vissuto l’altroieri anziché nel 1951. A tratti è commovente, dolcissimo, altre volte è scontroso e incomprensibile, ammette di comportarsi come un dodicenne ma non riesce a farne a meno. L’Holden che avevo letto quand’ero io stessa adolescente mi aveva affascinata, ma non era così vicino, così immediato, così vero. Era un ragazzetto snob e ricco di famiglia, che si lamentava di tutto e parlava in modo artificioso.

Unico appunto: anziché spendere soldi in fascette, io avrei messo il nome del traduttore in copertina. A parte questo, come dicevo avrei voluto analizzare la nuova traduzione, ma non ce n’è bisogno: molte parole sono già state spese su questa riuscitissima operazione, e mi limito a segnalarvi gli interventi più interessanti:

Divertente carteggio tra Matteo Colombo e l’editor Anna Nadotti
Intervista a Colombo su Il Mucchio
Intervista a Colombo su rivista Studio
Confronto fra le due traduzioni su Linkiesta

Spero davvero che gli adolescenti di oggi abbiano voglia di mettersi nei panni di Holden, almeno per un pochino, perché non sono poi così diversi dai loro.

[…] Ogni tanto mi rompo di sentirmi dire che devo comportarmi come uno della mia età. Certe volte mi comporto come se fossi molto più grande, giuro, solo che a quello la gente non fa caso. La gente non fa caso mai a niente.

 

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Giornate della Traduzione Letteraria 2014

10672290_694686303950484_8520506359637067981_nNon avendo potuto partecipare alle Giornate della Traduzione Letteraria di Urbino, ho chiesto sulla pagina facebook del blog se qualcuno che ci era andato avesse avuto voglia di raccontare la sua esperienza. Ha risposto all’appello Alessia Fortunato, che ringrazio moltissimo. Ecco quindi il suo resoconto: buona lettura!

Una piccola premessa: personalmente ho soltanto aggiunto qualche “a capo” e corretto qualche accento. La forma e i contenuti dell’articolo rappresentano unicamente l’opinione dell’autrice.

Le Giornate della Traduzione sono state organizzate e presiedute da Ilide Carmignani e Stefano Arduini, con varie illustri guest star che hanno contribuito a rendere questa esperienza molto completa e accattivante. Siamo partiti nel primo pomeriggio di venerdì 26 Settembre con i consueti saluti e presentazioni, immediatamente seguiti dalla presentazione di “Libro”, ad opera di Gian Arturo Ferrari, e fin qui siamo ancora nell’ambito del vago.

Intanto l’aula magna di Palazzo Battiferri si è riempita sempre di più: studenti del posto e non, traduttori alle prime armi, traduttori meno noti e volti più o meno conosciuti. Interessante la tavola rotonda tenuta sulla crisi dell’editoria, dettata dall’avvento dell’ebook, che se riduce i costi di produzione, riduce anche i guadagni senza per questo ridimensionare i collaboratori che prendono parte al processo di pubblicazione. In quella sede Ilide Carmignani ha chiesto l’intervento di Martina Testa (Minimum Fax), Luca Formenton (Il Saggiatore), Mariagrazia Mazzitelli (Salani) e Paolo Repetti (Einaudi Stile Libero), per sentire il parere di case editrici più o meno grandi. Il risultato è abbastanza ovvio: gli editori più piccoli, in situazioni di difficoltà economica, hanno come ultimo “pensiero” proprio pagare i traduttori.

Da qui l’intervento (personalmente assai poco gradito) di una persona dalla platea, non so chi fosse ma a quanto pare una traduttrice piuttosto affermata, che rivendicava come risoluzione della crisi un ritorno alla “vera qualità” di “loro”, i traduttori dai nomi altisonanti le cui cartelle costano non meno di 18 € l’una, che ovviamente in una contingenza economica come questa, a meno che non si tratti di grandi classici, finiscono per lasciare il posto a noi “giovinastri” che sinonimo di qualità a quanto pare non siamo. L’intervento non è stato condiviso né dalla signora Mazzitelli né dalla signora Testa, ma non c’è stato il tempo per rispondere adeguatamente in quanto si era andati oltre l’orario consentito.

Ammetto di aver saltato la Lectio Magistralis di Giuseppe Antonelli “Hai parlato come un libro stampato!”, perché di lì a poco iniziava il mio seminario e dovevo spostarmi in tempi brevi. Ho seguito “Quando il rosa si tinge di giallo” di Alessandra Roccato (Harlequin Mondadori), un interessantissimo momento di confronto sul romanzo che sta tornando nuovamente di moda, di cui la Roccato ha elencato i punti chiave e le linee guida con grande chiarezza e semplicità. Metà del seminario è stato un confronto su quattro pagine che ci era stato chiesto di tradurre, e che abbiamo affrontato tutti insieme per snodare i punti più ostici e capire anche quando è il caso di sacrificare troppa precisione a beneficio di una buona resa emotiva.

Sabato 27 si è aperto con un’altra bordata di seminari, io ho partecipato a “Il ruolo del traduttore all’interno della macchina editoriale” tenuto da Martina Testa, che oltre a chiarire i meccanismi dell’editoria, ha dato una serie di brillanti consigli per ottenere l’attenzione delle case editrici: per chi ha esperienza, insistere sulle pubblicazioni nel curriculum, per chi non ne ha (in realtà mi approprio anche io di questo consiglio), invece del mero invio del curriculum, che sa di passivo, mandare vere e proprie proposte editoriali con tanto di scheda recensiva, sample e proiezioni di vendita dell’opera inedita in Italia.

A seguire, mi cospargo il capo di cenere, ma non saprei riferirvi niente della lezione di etimologia di Alberto Nocentini (Le Monnier) perché è stata abbastanza… sterile? Noiosissima? Ovviamente è un parere personale. Viceversa l’ora successiva è stata un tuffo nella traduzione ai limiti della filologia assieme a Michele Mari, che ci ha raccontato di come il suo amore per Stevenson e L’isola del tesoro lo abbia portato ad accettare la traduzione di un sequel (ovviamente non scritto da Stevenson) che riportava delle incongruenze con l’originale traduzione degli anni sessanta… problema che la casa editrice ha risolto assegnando una nuova traduzione di Stevenson proprio a Mari, per la sua grande gioia.

Dopo il momento dedicato alle premiazioni (Francesca Sassi per Harlequin Mondadori e Anna Ravano per il premio Zanichelli) e lo stacco, riprendono i seminari. Questa volta tre di fila, ancora una volta se ne potevano scegliere solo tre, e i miei hanno anche avuto la fortuna di essere in due sedi diverse, quindi… ho mantenuto la forma! Il primo, “Traduzioni impossibili. Ambiguità e giochi di lingue nell’Ulisse di James Joyce”, è stato tenuto da Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni, che ha ritradotto l’opera nel 2013. Ammetto di aver seguito solo per esigenze legate alla traduzione a cui lavoro al momento, non sono una fan di Joyce né del suo genere, ma ho comunque ascoltato con molto interesse l’approccio dinamico con cui Terrinoni si è avvicinato a Joyce riscoprendone l’aspetto ribelle e tipicamente irlandese con il suo “dublineese”.

Poi è stata la volta di un brillantissimo Daniele Gewurz su “Come comportarsi di fronte agli errori dell’originale”: consigli, suggerimenti e aneddoti più o meno famosi. Gewurz ci suggerisce sempre e ecomunque un contatto o diretto con l’autore o altrimenti con l’editore, a cui va segnalato qualsiasi tipo di intervento, sia che decidiamo di risolvere noi, sia che ci limitiamo a segnalarlo ai revisori. Gli ultimi dieci minuti sono stati un divertente confronto di esperienze per raccontare di strilloni in pieno medioevo, cioccolate calde che diventano tazzoni di latte, terzine con quattro versi, e chi più ne ha più ne metta.

Dulcis in fundo, per me, “Storia di un ruttino. Tradurre ‘versi’ per bambini” di Franco Nasi. Un’ora splendida in cui un fantastico Nasi (adoro la sua pronuncia british) ci ha spiegato come si è approcciato ai giochi di parole e suoni per tradurre le poesie per bambini, e in particolare quelle musicali (nonché illustrate dallo stesso autore) di Roger McGough. Altissima la qualità della lezione, le poesie erano veramente belle e nonostante fosse poesia, Nasi si è concentrato sull’importanza della musicalità e del ritmo che è tanto caro anche alla narrativa in prosa curata dalla maggior parte di noi. Molto, molto piacevole e interessante scoprire i giochi di suoni e parole che anche l’Italiano può offrire, seppur con qualche sforzo in più rispetto alla più semplice base inglese.

Domenica mattina avrei dovuto seguire il seminario di Bartocci in due moduli sulle “Problematiche linguistiche e traduttive trasversali ai generi letterari. Analisi e possibili soluzioni”, ma purtroppo è stato annullato il giorno prima. I seminari in alternativa li avevo già seguiti, così ne ho approfittato per tornare alla stazione di Pesaro senza fare le corse.

Un’esperienza molto appassionante e coinvolgente, soprattutto i seminari con i relativi momenti di confronto, proprio per noi che come punto di riferimento abbiamo spesso e volentieri solo lo schermo di un pc, è stato veramente piacevole. La consiglio a tutti, tanto si ripete con cadenza annuale, ed è anche utile ai fini curricolari (per gli studenti di lingue, l’attestato di partecipazione vale anche 2 CFU).

Alessia Fortunato

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Editori che non.

10215426_f260Il “non” del titolo sta per non pagano, non citano, non revisionano, insomma, non svolgono il loro lavoro come dovrebbero. Ultimamente i traduttori stanno alzando la voce, e considerando che fino a poco tempo fa abbiamo solo sussurrato, se non taciuto, direi che questa è un’ottima notizia.

La notizia più “scandalosa” degli ultimi giorni è l’iniziativa di Federico Di Vita, il quale ha scritto sulla bacheca di un editore che non lo paga da 13 mesi per chiedere pubblicamente di provvedere. È intervenuta la proprietaria della casa editrice in questione, e ne è nato un acceso dibattito (al momento non più integralmente disponibile – lo sapevo che avrei dovuto salvarmi gli screenshot!). In sostanza, l’editore ammette difficoltà finanziarie e proclama la propria buona fede e l’intenzione di pagare. Il problema è che con le buone intenzioni non si pagano le bollette, e ancora una volta i collaboratori esterni del mondo dell’editoria – in questo caso si trattava di revisione e non di traduzione – si rivelano essere l’ultima ruota del carro.

È un po’ che si parla dell’argomento, e le opinioni sono contrastanti: se tutti ammettono che pagare chi lavora è un sacrosanto dovere, alcuni tuttavia giustificano le case editrici insolventi perché in fondo “c’è crisi per tutti”. Il che è sicuramente vero, in questo momento l’editoria non è certo un settore dalle rosee prospettive. Però, ha senso impegnarsi in un progetto e farci lavorare della gente se si sa che poi questa gente non potrà essere pagata? Ha senso costringere un lavoratore a rivolgersi a un avvocato per ricevere quanto gli spetta, magari spendendo anche più di quel che gli è dovuto? Le risposte sembrano scontate ma non lo sono.

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A volte un post sui social network è più potente di una minaccia di denuncia, e inoltre stimola un dibattito che riesce ad accendere anche gli animi più miti. Negli ultimi mesi questo è avvenuto non soltanto per quanto riguarda i pagamenti, ma anche per un altro diritto del traduttore, quello di essere citato insieme alla propria traduzione.

Un esempio? Tempo fa pubblicai sulla mia pagina Facebook lo screenshot di uno scambio di battute su Twitter tra l’account di Einaudi e la traduttrice Isabella Zani. A mio parere le risposte di Einaudi (del suo portavoce su Twitter, ok, ma se in quel momento pubblichi con l’account Einaudi, tu SEI Einaudi) erano state piuttosto scortesi, per non dire maleducate. Nei commenti al post, molti erano d’accordo con me, ma molti altri hanno colto l’occasione per far notare quanto siano noiosi e rompiscatole i traduttori che chiedono di essere nominati (dimenticando che è un diritto stabilito per legge, non un capriccio). Cito:

Perché non il nome font tipografico. O il nome dell’impaginatore. O dell’editor.

E, parlando della scarsa qualità di alcune traduzioni oggi in commercio:

beh, allora che [i traduttori] abbassino i prezzi. Gli autori rischiano, mettendosi in gioco senza sapere se venderanno mai. Gli editori rischiano, producendo senza essere certi del rientro economico… Iniziassero a lavorare come noi [autori] prendendo piccole percentuali sui libri.

Insomma, secondo alcuni il traduttore dovrebbe assumersi il rischio imprenditoriale, secondo altri il suo lavoro è paragonabile a quello dell’impaginatore (lavoro di tutto rispetto, ovviamente, ma che non presuppone meriti autoriali), e in ogni caso dovrebbe abbassare le pretese. “Pretese” che, lo ripeto, sono stabilite dalla Legge 633 del 22 aprile 1941, art. 70.

Lo stesso screenshot è poi stato pubblicato su Social Media Epic Fails – e qui ringrazio per la segnalazione Luca Pantarotto di Holden&Company, altro paladino della correttezza in campo editoriale – dove ha ricevuto un bel po’ di commenti non esattamente gentili nei confronti di Isabella Zani, che per fortuna è abbastanza consapevole da sapersi difendere benissimo da sola (inoltre alcuni commenti, scusate il gioco di parole, si commentavano da soli per maleducazione e insolenza). La cosa peggiore, però, è che anche diversi traduttori in quell’occasione si sono schierati dalla parte dell’editore. Se i nostri diritti non li difendiamo noi, come possiamo sperare che gli altri li comprendano?

Quando però vengono pubblicate schifezze immonde tutti sono pronti a lamentarsi dei traduttori. L’ho fatto io stessa in un post leggermente irritato che presentava una serie di foto di una traduzione davvero pessima, inguardabile, roba che nemmeno Google Translate avrebbe potuto concepire (o forse sì). Tipo che, all’acquario, una bambina piccola batteva “sul bicchiere” anziché “sul vetro”. Tutti sono stati d’accordo sul fatto che fosse uno scandalo. La casa editrice, interpellata, non mi ha mai risposto. Non so se la traduttrice sia stata pagata, quanto tempo le sia stato concesso, ma sicuramente su quel libro non è stato fatto nessun tipo di editing, e questa è una colpa della casa editrice che ha messo in circolazione il libro, non della traduttrice. Si sa che i traduttori diventano visibili solo quando “sbagliano”, in tutte le altre occasioni devono starsene buoni e zitti nel loro angolino.

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Tornando all’argomento più scottante, nell’ambiente della traduzione editoriale si parla da tempo di fare i nomi degli editori insolventi, di denunciare pubblicamente i singoli casi, ma non se n’è ancora fatto nulla, e nessun giornalista ha ancora fiutato lo scoop, come ha fatto giustamente notare Federica Aceto (fra l’altro, se non conoscete ancora il suo blog, ve lo consiglio caldamente). Per un certo periodo è stato aperto il blog Editori che pagano, ma anche quello è stato subissato di critiche.

In sostanza, quando un editore lavora male si vede da tante cose. Una di queste sono i testi poco (o per nulla) curati. Un’altra è il mancato pagamento di coloro che letteralmente “fanno” i libri, li compongono, li sudano parola dopo parola. Secondo molti, evidentemente, i traduttori dovrebbero tornare nell’invisibilità da cui sono sempre stati avvolti, tacendo i mancati pagamenti e quasi quasi ringraziando se vengono retribuiti.

In fondo “è un lavoro talmente bello che si può fare anche gratis”, no?

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La correttezza paga, e se non paghi sei fuori

In questi giorni sta prendendo forma una campagna nata da Luca Pantarotto di Holden & Company, che prevede di non recensire più libri delle case editrici che notoriamente non pagano i propri collaboratori. I nomi delle suddette girano da parecchio fra gli addetti ai lavori, i quali avvisano i colleghi in modo che questi ultimi non accettino lavori già rifiutati da altri professionisti. Dell’iniziativa si parla diffusamente su diversi blog, vi invito a leggere il post riassuntivo scritto su Holden & Company per saperne di più. Vi consiglio anche il post dedicato all’argomento su Giramenti.

Ovviamente la cosa riguarda da vicino anche i traduttori, categoria debole e spesso bistrattata. Mi fa quindi piacere sostenere e pubblicizzare questa iniziativa, sebbene il mio non sia un blog di recensioni (in realtà un blog letterario ce l’ho, e si chiama Solo libri belli, e ovviamente aderirò anche lì – appena capisco come inserire il banner – perché non è detto che i libri belli siano pubblicati da case editrici virtuose).

Perché “la correttezza paga”? Perché senza scrittori, traduttori, editor, correttori di bozze e lettori una casa editrice non può esistere. E non pagare i propri collaboratori è una pessima mossa, che può far innervosire i lettori più consapevoli.

Lavorando da qualche anno nel campo dell’editoria, sia dall’interno sia dall’esterno, come traduttrice, editor, web manager e così via, so bene come purtroppo i ritardi nei pagamenti in questo mondo siano all’ordine del giorno. Lo confermano le mailing list di traduttori, in cui professionisti ben più famosi e ricercati di me lamentano le stesse problematiche. Si sa, c’è crisi per tutti, questo però non deve rappresentare una giustificazione per far lavorare gratis gente che ha sudato per acquisire una certa professionalità.

State bene attenti quando ricevete una proposta, di qualsiasi tipo essa sia: di recensione se siete blogger, di traduzione se siete traduttori. Fate una ricerca, informatevi per scoprire se la casa editrice in questione è seria e affidabile. Questo gioverà a tutti, e chissà che le case editrici non capiscano che è meglio tagliare gli sprechi inutili piuttosto che non pagare chi se lo merita.

Sono felice che si stia creando una certa attenzione intorno ai problemi di chi lavora nel mondo dell’editoria: troppo spesso ci si sente dire che stare tutto il giorno a scrivere davanti a un computer non è un vero lavoro. È ora di ribadire i nostri diritti, con ogni mezzo.

 

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Tradurre “I Remember” di Joe Brainard

Ammetto che quando mi è stato proposto di tradurre “I Remember” non sapevo chi fosse Joe Brainard, e non avevo nemmeno letto “Je me souviens” di Perec, ispirato proprio da Brainard. Ho ricevuto il testo e sfogliandolo mi sono resa conto di quanto fosse particolare: frasi brevissime, mai più lunghe di dieci righe, in molti casi una o due righe soltanto, e tutte cominciavano con le stesse parole: “Mi ricordo”. A volte basta citare un oggetto, una marca, una canzone, e subito tornano in mente un mondo e un’epoca ormai lontani. Il libro di Joe Brainard funziona proprio così: un’idea apparentemente semplice, ma in realtà carica di potenzialità che qui vengono sfruttate appieno. Come scrive il suo amico Ron Padgett: “ci rendemmo tutti conto che aveva fatto una scoperta meravigliosa, e molti si chiedevano come mai un’idea così ovvia non fosse venuta in mente a loro”.

Ma non si tratta di un semplice elenco di prodotti e personaggi: Brainard entra in prima persona nel suo libro, espone tutta la propria vulnerabilità di artista, di omosessuale, di bambino e poi ragazzo, di studente, di uomo. E così facendo, come scrive Paul Auster nella prefazione, riesce “a trascendere ciò che è puramente privato e personale in un’opera che parla di tutti. È proprio questa la sensazione: parlando di sé, Brainard riesce a coinvolgere il lettore con una spontaneità e un candore davvero eccezionali, facendolo entrare nella propria storia personale e contemporaneamente stimolando i ricordi del lettore stesso.

Per un libro così atipico, la casa editrice voleva un revisore di tutto rispetto. Io ho avuto la fortuna di averne addirittura due, dopo aver buttato giù la prima bozza di traduzione. In un primo momento ho lavorato con Paola Quarantelli, editor di Lindau, e in seguito anche con Susanna Basso, che credo non abbia bisogno di presentazioni. Ecco come abbiamo impostato il lavoro.

Dopo aver tradotto – un po’ di getto, ma facendo le dovute ricerche e cercando di “entrare” già nel testo – le prime cinquanta pagine, ci siamo incontrate tutte e tre in casa editrice per discutere la strategia da seguire avendo già qualcosa in mano. Ebbene, il mio timore reverenziale nei confronti di un testo così importante mi aveva portata a rimanere troppo aderente all’originale, nel tentativo di conservare il più possibile. Ma quello di Brainard è un libro fresco, immediato, evocativo, ed era quindi necessario staccarsi un po’ dal testo di partenza per restituire lo stesso effetto in italiano. Ovviamente questo non poteva avvenire nella prima bozza di traduzione, che deve necessariamente restare vicina al testo di partenza per evitare che i rimaneggiamenti successivi la facciano allontanare davvero troppo dall’originale.

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Tenendo a mente i consigli ricevuti, ho quindi terminato la traduzione e siamo passate alla seconda fase: Paola ha letto e revisionato tutto il libro, e a mano a mano che andavamo avanti ci incontravamo in casa editrice (la sera, dopo il suo orario di lavoro) per limare ogni singola frase. I suoi suggerimenti sono stati davvero preziosi, e mi hanno aiutata a mettermi nei panni di un lettore italiano staccandomi un po’ – anche se a malincuore – dall’inglese.

A metà lavoro, abbiamo inviato la prima tranche a Susanna Basso. Anche in questo caso le sue annotazioni sono state indispensabili: in molti casi, la sua sensibilità linguistica ha arricchito il testo di una immediatezza di cui Brainard, credo, sarebbe stato orgoglioso. Ricevere i suoi consigli, di persona o al telefono, mi ha resa molto più consapevole e attenta: un bell’allenamento per il famoso “orecchio del traduttore”! Il confronto e la possibilità di dialogare sono un’occasione rara e meravigliosa per chiunque faccia questo mestiere.

Abbiamo proceduto nello stesso modo anche per la seconda metà del libro: lunghissime serate passate in casa editrice con Paola – con la quale per fortuna ho trovato un’ottima intesa – a cercare soluzioni, a snellire le frasi, a riflettere e spesso, molto spesso, a ridere parecchio.

Sì, perché “Mi ricordo” è un libro tenero, commovente, ma anche spassoso e arguto, ricco di esperienze più o meno imbarazzanti, di fantasie, di riflessioni e pensieri che prima o poi sono venuti in mente a chiunque. Brainard si mette in gioco senza vanità, e senza risparmiarci davvero nulla: insomma, se vi scandalizzate facilmente state alla larga da questo libro. Ma, tornando alla traduzione, quali sono state le principali difficoltà?

Innanzitutto, sono state necessarie davvero moltissime ricerche. Io non ho vissuto in America negli anni ’40, ’50 e ’60, e di conseguenza ho dovuto colmare questa lacuna informandomi su un’infinità di siti diversi per cogliere tutti i riferimenti. A volte era molto facile capire di che cosa stesse parlando, altre volte le frasi, nella loro brevità e assenza di contesto, rimanevano oscure e mi facevano dannare. Qualche esempio? “I remember box suits.” “I remember «Lavender past» (He has a…)”. Come ogni traduttore sa, senza contesto a volte è davvero molto difficile stabilire di cosa si parli, ma con molta pazienza e unendo tre teste ne siamo venute a capo.

In altri casi era chiaro a che cosa Brainard si riferisse, ma era difficile rendere lo stesso concetto in italiano perché il lettore non avrebbe riconosciuto certi riferimenti immediatamente comprensibili per un americano. A volte abbiamo optato per una breve traduzione didascalica: per esempio, “I remember Bickford’s” è diventato “Mi ricordo i ristoranti Bickford’s”. Altre volte, per evitare lunghe e in fondo inutili spiegazioni, qualcosa è andato perso, e “car coat” è diventato un semplice giaccone. Per quanto riguarda gli abiti, le acconciature e i personaggi dell’epoca nella maggior parte dei casi è stata sufficiente una ricerca accurata, anche se non sempre, dopo aver capito, era semplice trasporli in modo comprensibile per un lettore italiano.

Numerosi erano anche i giochi di parole: incubo di qualsiasi traduttore, quando sono decontestualizzati e assumono tutta l’importanza di una frase singola, isolata, non è possibile tralasciarli o prendere decisioni arbitrarie. Ve ne lascio alcuni giusto per divertirvi a pensarci sopra, e per quanto riguarda le soluzioni che abbiamo adottato… Le troverete nel libro!

I remember «Your shirt tail’s on fire!» and then you yank it out and say «Now it’s out!»”. Ovviamente qui si gioca sul “fire” che può essere “out” come la camicia può essere “out” dai pantaloni… Impossibile a mio parere trovare una soluzione abbastanza fedele, quindi abbiamo optato per un altro scherzo.

I remember a joke about Tom, Dick and Harry that ended up, «Tom’s dick is hairy»”. Qui il gioco di parole “sporco” è evidente, e in questo caso dopo mille riflessioni e dopo aver stressato un po’ chiunque mi è venuto in soccorso un amico, che mi ha suggerito una soluzione a mio avviso davvero perfetta.

I remember «dress up time». (Running around pulling up girls’ dresses yelling «dress up time»).” Qui l’ambiguità di “dress up” era unita alla difficoltà di trovare un’espressione verosimile, che dei bambini potessero davvero urlare rapidamente correndo qua e là per alzare il vestitino alle femmine.

Avete qualche idea per questi giochi di parole? Sono sicura che esistano tantissime soluzioni diverse, anche se sono piuttosto soddisfatta di quelle adottate nel libro.

Tralasciando questi casi particolari, anche le frasi apparentemente più semplici nascondevano delle insidie: Brainard era un artista, e anche sulla carta gli bastava un accenno di pennellata per evocare tutto un insieme di pensieri, emozioni e sensazioni: un aggettivo, l’ordine delle parole, una parentesi potevano dare a una frase brevissima una forza evocativa incredibile e adatta a essere resa solo in una lingua come l’inglese, in cui la sintesi la fa da padrona. In italiano, per ottenere la stessa immediatezza, è stato a volte necessario perdere qualche sfumatura, guadagnando però in ritmo e spontaneità. Inoltre, qualsiasi traduttore sa bene quanto sia complicato scrivere in modo scorrevole, e quanto lavoro di cesello ci sia dietro una frase apparentemente banale.

A traduzione ultimata, ci siamo trovate un’ultima volta tutte e tre in casa editrice, dove abbiamo discusso anche della prefazione di Paul Auster, che ha adorato questo libro. E sentirmi dire che avevo fatto un ottimo lavoro è stata una delle soddisfazioni più grandi della mia carriera, anche se il merito va certamente condiviso.

Tradurre Joe Brainard è stata un’esperienza intensa, diversa, eccezionale. Sono grata a Paola e alla Lindau per avermi dato questa possibilità. E lavorare con Susanna Basso è stato un sogno che si è avverato. Fatemi sapere come avreste risolto i giochi di parole di cui sopra, e se lo leggerete spero che il libro vi piaccia quanto a me è piaciuto tradurlo.

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Scheda del libro sul sito Lindau
Pagina Facebook di Mi ricordo
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Corso Tradurre per l’editoria: dall’altra parte della cattedra (virtuale)

10314771_1556409431252554_948702527943379954_nA due settimane dal termine del corso Tradurre per l’editoria, è giunta l’ora di tirare le somme di questa bellissima ed emozionante esperienza.

In passato ho frequentato diversi corsi e seminari sulla traduzione, e sono sempre stata convinta della necessità di imparare da chi svolge realmente questo mestiere. Quando Rossella Monaco, di La Matita Rossa, mi ha proposto di tenere il corso insieme a lei, ho pensato che sarebbe stata un’ottima opportunità per unire le mie esperienze didattiche come insegnante di inglese in una scuola superiore e il mio lavoro da traduttrice editoriale. Insieme abbiamo concordato di dare al corso un taglio il più possibile pratico. Non sapevamo quale sarebbe stato il livello degli iscritti al corso, ma abbiamo comunque scelto di proporre una prova di selezione iniziale perché il livello di conoscenza della lingua permettesse ai corsisti di poter seguire senza difficoltà le indicazioni delle dispense.

Il corso è articolato in 12 lezioni, una alla settimana, ognuna delle quali composta da una dispensa su un particolare argomento, più un esercizio, solitamente di traduzione, ma non solo. Dopodiché, ogni iscritto ha diritto a mezz’ora settimanale (per un totale di 6 ore) di chat a tu per tu con il tutor, per parlare dell’esercizio svolto ed eventualmente per chiarire alcuni aspetti della lezione. Potete trovare il programma del corso sul sito ufficiale, così come le altre informazioni relative a tempistiche e costi, quindi su questo non mi soffermo.

Mi limiterò a dire che scrivere le dispense per me e Rossella è stato un ottimo modo per mettere nero su bianco ciò che abbiamo imparato nei vari corsi e seminari frequentati in precedenza, oltre alle informazioni apprese leggendo le mailing list di traduttori e i siti specializzati. E soprattutto è stata un’occasione per tradurre in metodo ciò che giornalmente ci troviamo ad affrontare nel nostro lavoro di traduttrici per l’editoria. È stato però ancor più interessante confrontarci sugli esercizi svolti, sia con gli iscritti sia tra di noi.

È davvero affascinante scoprire quanti modi diversi ci sono per scrivere una frase. Negli esercizi ho letto scelte di traduzione brillanti, altre un po’ forzate, altre ancora perfettamente accettabili anche se tutte diverse fra loro. Leggere quindici o venti versioni diverse dello stesso brano, se ad alcuni può sembrare noioso, è invece estremamente interessante per chi ama giocare con le infinite possibilità e combinazioni che ci offre la nostra lingua.

I brani selezionati erano molto diversi, di narrativa e di saggistica, e presentavano problemi e dilemmi traduttivi vari. Alcuni iscritti se la cavavano benissimo con certi testi e meno con altri; c’è stato chi ha scoperto con grande sorpresa di preferire la saggistica, chi invece non aspettava altro che il successivo testo di narrativa, o viceversa. Tutto questo ci ha dimostrato ancora una volta che un traduttore, per quanto possa essere un bravo professionista, può essere perfetto per un libro e meno per un altro: è necessario trovare la voce giusta per tradurre ogni testo, ed essere in grado di cambiare questa voce a seconda di quella dell’autore che ci troviamo davanti.

Insomma, il corso ha confermato quanto sia ricco e variegato il mondo della traduzione editoriale. Spesso non esistono una risposta giusta e una sbagliata – a parte gli errori di comprensione o di resa, ovvio – ma solo un amplissimo ventaglio di possibilità traduttive. È difficile trovare e mantenere il registro giusto, risolvere passaggi che in inglese sono brevissimi e in italiano richiederebbero immensi giri di parole per non perdere qualche sfumatura, ma gli iscritti hanno dimostrato una grande consapevolezza. All’inizio il livello era molto vario, c’era chi aveva già studiato lingue e traduzione e chi si avvicinava a questo mondo per la prima volta, chi si gettava a capofitto sugli esercizi e chi aspettava la scadenza imminente per la consegna. A mano a mano che si andava avanti, ognuno notava su quali aspetti doveva lavorare per migliorare la resa. A volte è difficile notare le proprie piccole manie traduttive, se nessuno ce le indica.

Le traduzioni vanno consegnate 24 ore prima dell’incontro in chat con il tutor, incontro che può essere programmato a seconda degli impegni e delle preferenze degli iscritti. È questa la vera forza dei corsi online: la possibilità di un dialogo diretto unita alla comodità di poter scegliere giorni e orari.

Il dialogo è certamente uno strumento preziosissimo, che arricchisce entrambe le parti. Certo, le preferenze personali in traduzione ci sono sempre, ma è importante saperle distinguere dagli errori veri e propri e fare tesoro delle opinioni altrui. Far leggere la propria traduzione o discuterne una insieme è un’esperienza altamente formativa. L’altra persona riuscirà sempre a farci notare cose a cui noi non avevamo fatto caso, e viceversa, ovviamente.

La traduzione richiede estrema attenzione al dettaglio, e se qualcuno ci indica dove guardare è molto più semplice allenarsi a riconoscere certi problemi. Se è vero che non si può propriamente “insegnare a tradurre”, è altrettanto vero che i corsi come questo, a nostro parere, aiutano a crescere e a essere più consapevoli dei propri strumenti. Siamo soddisfatte di questa prima edizione, visto che dai questionari di gradimento dei corsisti i pareri sono stati più che positivi. Ringraziamo dunque tutti gli iscritti. Il corso ripartirà a settembre: le preiscrizioni sono già aperte, vi aspettiamo!

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Salone del libro 2014 – il mio resoconto (seconda parte)

La folla in sala professionale… Ci sono anch’io in un angolino. foto @l’AutoreInvisibile

Ed eccoci alla seconda parte del mio resoconto sul Salone del libro di Torino; se vi siete persi la prima la trovate qui. Siccome venerdì non ho partecipato all’incontro Tradurre Harry Potter (va bene, lo ammetto, non l’ho neppure mai letto: lo so, lo so, non ditemi niente) ma magari a qualcuno interessa sapere com’è andato, aggiungo anche il link all’articolo di Bookblog che ne parla. Passiamo ora ai seminari di sabato.

Un incontro che mi interessava molto e che alla fine ha fatto un po’ discutere è stato Valutare un saggio di traduzione. Le prove di traduzione sono sempre un argomento spinoso, ma se Grazia Giua di Einaudi ed Ena Marchi di Adelphi hanno cercato di spiegare i loro criteri per valutarle, mentre Federica Magro di RCS ha parlato poco delle prove e molto dei service editoriali, argomento non proprio inerente al tema del seminario. Ma andiamo con ordine.

Grazia Giua ha segnalato alcune parole chiave: responsabilità, nel senso che un editore deve assegnare le prove in modo mirato, a fronte di un incarico reale, dato che un traduttore può essere ottimo per un certo libro e inadatto a un altro; mentre la responsabilità del traduttore è principalmente l’autorialità, ossia consegnare una prova svolta interamente da lui/lei, e non imbrogliare solo per ottenere l’incarico. Investimento: la prova è un costo per tutti, in termini di tempo e denaro, ma l’editore la fa per crearsi un network di traduttori a cui attingere anche per altri testi. Remunerazione: il traduttore ha il diritto di ricevere un feedback ragionato, anche nel caso non venisse scelto. Mediazione: fondamentalmente il dilemma della correttezza formale vs. l’espressività di un testo in traduzione.

Anche Ena Marchi crede nel rapporto stretto fra editor e traduttore, e nell’ambito dei corsi di traduzione preferisce quelli che permettono un rapporto tutoriale fra “esperto” e “allievo” (che poi è il principio base del corso Tradurre per l’editoria di La Matita Rossa, non per farmi pubblicità :P ). Sapere perché si sbaglia è fondamentale, ed essere “bocciati” a una prova di traduzione vuol solo dire che non eravamo adatti a quel libro in particolare, non vengono messe in dubbio le nostre capacità traduttive (non sempre, insomma). È possibile inoltre richiedere una seconda prova, perché la traduzione non è una scienza esatta: può darsi che un altro libro si riveli più congeniale alla nostra voce.

Ha poi preso la parola Federica Magro, che ha voluto spostare il discorso sulla saggistica, ma senza affrontare il tema delle prove di traduzione. Il suo consiglio per gli aspiranti traduttori di proporsi ai service editoriali, di cui molte case editrici fanno largo uso, mi ha lasciata un po’ perplessa. La sensazione è che gli editori siano completamente scollegati dalla vita reale dei traduttori e non sappiano che questi service, che garantiscono traduzioni veloci e a costi contenuti, pagano i traduttori un pezzo di pane e li fanno lavorare con tempistiche disumane. Per fortuna è intervenuta una traduttrice, di cui purtroppo non ho afferrato il nome, che ha sottolineato questo aspetto poco pulito dei service. Federica Magro ha tentato di recuperare assicurando che loro si rivolgono a service molto seri, ma in sala si percepiva un certo scetticismo. Del resto, già i traduttori vengono pagati poco se lavorano direttamente per gli editori, se c’è un passaggio in più (e sicuramente il service qualcosa ci deve guadagnare) quanto potrà convenire a un traduttore lavorare così?

L’incontro si è chiuso con un’ulteriore nota di pessimismo: alla domanda di Ilide Carmignani su come un giovane traduttore possa proporsi per una prova di traduzione, tutte e tre le editor hanno risposto: non cominciate da noi. Insomma, il caro vecchio “dovete avere esperienza, ma noi non ve la facciamo fare”. Un po’ di amaro in bocca, dunque, per un incontro che aveva grandi potenzialità ma che si è rivelato utile solo nella teoria di una situazione ideale, quella di un traduttore già affermato (ebbene sì, anche i traduttori già noti affrontano prove di traduzione, per capire se sono adatti a un libro in particolare). L’unica conclusione da trarre è che è meglio cominciare a proporsi alle case editrici medio-piccole.

L’incontro successivo era Tradurre il ritmo della prosa, con Franco Buffoni e Donata Feroldi. È stato molto interessante, anche se alcuni degli esempi proposti mi sono sembrati un po’ troppo aderenti all’originale, al contrario di quanto veniva detto durante l’incontro. In sostanza, il concetto è che il ritmo delle frasi è importante quanto il loro significato. Non bisogna riprodurre quello dell’originale, ma trovare il respiro del testo che stiamo producendo: il ritmo coincide con la soggettività, e l’incipit è il momento in cui questo respiro si manifesta. Esiste il discorso, non le singole parole, ed è in base a questo che dobbiamo trovare la musicalità del testo, a livello prosodico, di punteggiatura e di ordine delle parole. Anche le assenze, i vuoti, fanno parte del ritmo. Buffoni ha sottolineato che con “ritmo” non si intende il metro poetico: la differenza non è fra poesia e prosa, ma tra buona scrittura, che ha una sua musicalità, e scrittura mediocre.

Passiamo a L’italiano letterario delle redazioni editoriali, incontro che sono riuscita a seguire solo in parte. Giuseppe Antonelli ha sottolineato come il concetto di “giusto” sia diverso da quello di “esatto”: bisogna perseguire la precisione, non l’esattezza, che se portata all’estremo si trasforma in un “esattismo”. Ha anche ricordato come spesso per fare bella figura si tenda ad alzare il registro (effettuare al posto di fare, recarsi invece di andare, e così via), in nome di un perbenismo linguistico non troppo apprezzabile. Negli ultimi dieci-quindici anni, secondo Antonelli, si è andati verso una sorta di grammaticalizzazione della lingua, che viene spesso gonfiata in cerca di effetti speciali, atteggiamento tipico di chi non la conosce bene e cerca di darsi un tono.

È poi intervenuta Mariarosa Bricchi, che ha parlato di permeabilità della lingua: in un ambiente chiuso come una redazione si tende a creare un linguaggio interno condiviso da chi ci lavora. Le revisioni spesso riflettono l’idea di lingua che ha l’editor, ma bisogna esserne consapevoli e saper rispettare il lavoro altrui. È stato poi sottolineato che il congiuntivo non è in via d’estinzione, anzi, spesso viene usato a sproposito. In un testo, le parole non devono essere la veste ma il corpo: inutile abbellire, adornare, arricchire a sproposito se sotto non c’è nulla.

Ho poi seguito anche Tradurre Leonard Cohen, ma la traduzione di poesie non è decisamente il mio forte. L’incontro è stato interessante, ma mi è difficile farne un riassunto. Sono state lette alcune poesie in lingua originale e le loro traduzioni italiane, e Giancarlo De Cataldo e Damiano Abeni hanno raccontato alcuni aneddoti riguardo al loro lavoro di traduzione.

Per finire ho ascoltato Susanna Basso parlare di Tradurre Alice Munro, ma anche qui è impossibile trasmettere in poche parole tutto ciò che è stato detto da questa donna eccezionale. Per fortuna il testo dell’incontro è disponibile online sul sito della rivista Tradurre.

Sabato ho concluso la giornata letteraria andando in centro a Torino, a Il Camaleonte Piola, a sentire la seconda presentazione condotta dalla mia amica Lettrice Rampante. Stavolta toccava a Iddu. Dieci vite per il dio del fuoco, di Andrea Vismara, sempre di Spartaco Edizioni, e nonostante il pubblico non fosse numeroso – o forse proprio per questo – è stato bello, si respirava la voglia di conoscere storie nuove. Spesso i piccoli editori riservano belle sorprese, quindi non sottovalutiamoli, anche se molti non traducono.

Quest’anno non ho fatto il consueto giro per chiedere i contatti agli editori. Non perché credo sia inutile, ma perché al momento per fortuna sto lavorando parecchio, e in ogni caso ho ancora tutti i contatti raccolti l’anno scorso. Non ho neppure fatto molti acquisti, un po’ per via dei pochi sconti che si trovavano agli stand, un po’ perché tra un incontro e l’altro non ho avuto moltissimo tempo per girare. Anche se il bello del salone è proprio questo, perdersi fra pagine e copertine, magari evitando accuratamente gli stand dei grossi editori, che tra luci accecanti, fascette esagerate e copertine tutte uguali assomigliano più a centri commerciali che a poli culturali. Non tutto positivo al 100%, anche considerando che all’interno del Salone i cellulari prendevano a singhiozzo e internet pure, e la sala “professionale” (modificata dal terribile calco “professionali” dell’anno scorso, ma anche “sala professionale” non è che abbia molto senso) era difficile da trovare, piccola e rumorosa come al solito. Ma sono contenta di esserci andata.

Il mio Salone si è concluso domenica, anche se non sono riuscita a seguire l’evento che avevo in programma perché ho dovuto passare mezza giornata in casa editrice… Curiosi? Al prossimo post!

 

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Salone del libro 2014 – il mio resoconto (prima parte)

IMAG3076[1]Quando sono entrata al Salone del libro il primo giorno, giovedì, la cosa che mi ha subito colpita è stata il profumo della carta. Nei giorni successivi non l’ho più sentito, non so se per via della folla o perché mi ero ormai assuefatta, ma giovedì è stato come entrare in un enorme libro, col naso puntato in avanti e le narici che fremevano di piacere.

Avevo elencato gli incontri che mi sarebbe piaciuto seguire, ma per svariati motivi (perlopiù lavorativi, poi vi racconterò) ne ho saltati alcuni e aggiunti altri. Ecco dunque il resoconto del “mio” Salone del libro.

Giovedì ho saltato il primo incontro, Lavorare nell’editoria oggi, ma mi hanno riferito che non mi sono persa granché. Se qualcuno di voi c’era, batta un colpo e mi faccia sapere! Il primo incontro che sono riuscita a seguire è stato Traduttore e revisore a confronto. Matteo Colombo dialogava con Anna Nadotti sulla nuova traduzione del Giovane Holden appena uscita per Einaudi, e Chiara Spallino parlava con Elena Loewenthal di un libro su una famiglia ebrea, di cui purtroppo non ho afferrato il titolo. Tuttavia quest’ultimo intervento ha un po’ perso di vista l’argomento del seminario, concentrandosi sulle difficoltà della lingua ebraica, per poi essere eclissato dalla verve della coppia Colombo-Nadotti. Impossibile riassumere tutto ciò che hanno detto, dimostrandosi davvero appassionati e competenti, ma vi consiglio caldamente di dare un’occhiata al loro frizzante epistolario pubblicato sul sito Einaudi, in cui raccontano le varie fasi del loro lavoro di traduzione e revisione. Il dialogo con un buon editor è una parte meravigliosa del lavoro di traduzione, ho avuto anch’io questa fortuna con il libro su cui sto lavorando al momento, e presto vi racconterò la mia esperienza.

Ma torniamo al Salone: dopo un primo giro fra gli stand, ho seguito La traduzione saggistica e scientifica divulgativa. Ho preso un bel po’ di appunti, ma cercherò di farla breve: Isabella Blum ha ricordato come per tradurre saggistica – ambito troppo spesso sottovalutato dagli aspiranti traduttori – sia necessario saper dominare il tema, che non vuol dire conoscerlo a menadito fin da subito ma saper svolgere ricerche appropriate. Bisogna sempre essere consapevoli delle proprie lacune, e saperle colmare. Ha poi sottolineato che spesso si fraintende la facilità del testo finale: scrivere in modo semplice e comprensibile comporta notevoli difficoltà. Enrico Casadei, di Codice edizioni, ha ribadito che a un buon traduttore di saggistica si richiede soprattutto versatilità, ossia la capacità di dominare testi che spesso riguardano discipline ibride. Non tutti i testi di saggistica sono settoriali al 100%, e del resto un esperto in una certa materia non è necessariamente un bravo traduttore. Occorre dunque essere in grado di sviluppare un metodo, più che specializzarsi in un campo circoscritto. Michele Luzzatto, di Bollati-Boringhieri, ha elencato tre capacità fondamentali per un traduttore di saggistica: prima di tutto saper scrivere bene in italiano, poi conoscere abbastanza bene l’argomento di cui si parla e avere una cultura abbastanza ampia, e solo in ultima posizione conoscere la lingua di partenza. Anche Michele Riva ha parlato di competenze e della capacità di ricercare fatti e informazioni, di sapersi muovere bene nell’argomento e di cogliere il modo in cui viene usata la lingua.

Il venerdì ho seguito Lo scrittore e i suoi traduttori – Barbara Ivancic dialoga con Ilide Carmignani, ma sinceramente questi incontri “monografici” non mi dicono un granché. È stato più interessante l’incontro successivo, Editori, lettori, traduttori: nuovi ruoli nell’esperienza digitale. Edoardo Brugnatelli ha dato qualche consiglio utile agli aspiranti traduttori: prima di tutto considerare gli e-book e l’autopubblicazione una risorsa, poiché pare che molti si mettano a scrivere in tarda età, abbiano grosse disponibilità finanziarie e sarebbero felici di vedere tradotte le loro opere. Un punto di partenza per scoprire autori da tradurre senza passare attraverso le case editrici è Babelcube, un sito internazionale che mette in comunicazione autori e traduttori. Ha poi consigliato di leggere questo articolo di Will Self sul Guardian e Is That a Fish in Your Ear? di David Bellos. Secondo Brugnatelli, inoltre, l’e-reader non avrà vita lunga perché è un apparecchio che permette di fare una sola cosa, mentre oggi la tendenza è di accentrare molteplici funzioni su un solo dispositivo. Di conseguenza, per un editore la concorrenza non saranno più gli altri editori, ma tutte le altre funzioni svolte da questi dispositivi: film, musica, giochi e distrazioni varie.

Ha poi parlato dell’acquisizione di aNobii da parte di Mondadori, ed è stato molto interessante sentire alcune delle novità che hanno intenzione di inserire sul sito: per esempio, nella scheda dei libri sarà possibile per il traduttore di una determinata opera inserire una propria nota alla traduzione. A me sembra una bellissima idea! Ci saranno poi dei collegamenti fra il sito e il proprio e-reader per inserire direttamente delle note durante la lettura. Insomma, secondo Brugnatelli, nonostante si sia parlato molto male di questa mossa, a Mondadori interessa aNobii più che altro perché sapere cosa dicono i lettori è una grande risorsa per un editore. Sarà vero? In ogni caso, un traduttore oggi deve essere più che mai in grado di dominare gli strumenti informatici e il web.

Per concludere il venerdì, sono andata a sentire la presentazione del libro Le giocatrici, di Marilena Lucente, pubblicato da Edizioni Spartaco, non tanto perché mi interessasse l’argomento quanto perché a presentare c’era la mia grande amica La Lettrice Rampante, che se l’è cavata alla grande :)

Mi rendo conto che questo post rischia di diventare infinito, quindi per oggi mi fermo qui. A prestissimo con la seconda parte del mio resoconto, riguardo agli incontri di sabato (domenica ero al salone ma non sono riuscita a seguire nulla).

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La traduzione al Salone del Libro 2014

Come spero tutti sappiate, questo fine settimana, da giovedì 8 a lunedì 12 maggio, si terrà il Salone Internazionale del Libro di Torino. Essendo uno dei principali appuntamenti del mondo dell’editoria in Italia, è un’occasione da non perdere. Come ho già detto più volte, per esempio nel mio report del Salone dell’anno scorso, le fiere del libro sono un appuntamento importante per i traduttori: per incontrare editori e addetti ai lavori, per sfogliare i libri, per immergersi nel mondo della letteratura e soprattutto per sentirsi meno soli. E non dimenticate che i traduttori entrano con lo sconto!

Anche quest’anno, infatti, sono numerosi gli incontri dedicati alla nostra professione, quasi tutti a cura dell’Autore Invisibile di Ilide Carmignani e della rivista Tradurre di Paola Mazzarelli.

Ecco il link a cui potete trovare tutti gli incontri sulla traduzione: http://www.salonelibro.it/it/programma/categoryevents/4519-Tipologie.html

Poiché quest’anno il sito non mi sembra fatto un granché bene, nel senso che non è molto chiaro di cosa tratteranno i singoli seminari, mi sono fatta un elenco personale di quelli che probabilmente seguirò, e se ci sarete vi invito a battere un colpo! Ecco quando pianterò le tende nella Sala Professionali (e già su questo “professionali” ricalcato dall’inglese ci sarebbe molto da discutere…). Ovviamente si tratta di scelte personali e mi riservo di cambiare idea all’ultimo momento, aggiungendone o togliendone qualcuno a seconda della voglia che avrò di sedermi ad ascoltare o di perdermi fra gli stand.

GIOVEDÌ 8 MAGGIO

Ore 12 – Sala professionali
Lavorare nell’editoria oggi
Rossella Bernascone, Luisa Capelli, Ilide Carmignani, Richard Dixon, Marina Morpurgo

Ore 14 – Sala professionali
Traduttore e redattore a confronto
Ilide Carmignani, Matteo Colombo, Elena Loewenthal, Anna Nadotti, Chiara Spallino

Ore 17 – Sala professionali
La traduzione saggistica e divulgativa
Isabella Blum, Ilide Carmignani, Enrico Casadei, Michele Luzzatto, Michele Riva

Ore 18 – Spazio autori
Daniele Petruccioli alla rincorsa di Dulce Maria Cardoso (Voland)
Paola Mazzarelli, Daniele Petruccioli

 

VENERDÌ 9 MAGGIO

Ore 15 – Sala professionali
Editori, lettori, traduttori: nuovi ruoli nell’esperienza digitale
Edoardo Brugnatelli, Sandra Furlan

 

SABATO 10 MAGGIO

ore 11.00 – Sala Professionali
Valutare un saggio di traduzione
Ilide Carmignani, Grazia Giua, Federica Magro, Ena Marchi

ore 12.30 – Sala Professionali
Tradurre il ritmo della prosa
Franco Buffoni, Donata Feroldi

ore 14.00 – Sala Professionali
L’italiano letterario delle redazioni editoriali
Giuseppe Antonelli, Mariarosa Bricchi, Ilide Carmignani, Alberto Rollo

ore 16.30 – Sala Professionali
Tradurre Alice Munro
Susanna Basso

 

DOMENICA 11 MAGGIO
ore 13.00 – Sala Blu
Traduttore, traditore? Tradimento, gradimento! – Grandi ospiti
Lectio magistralis di Douglas Hofstadter

 

Buon Salone a tutti!

 

 

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Translation Is Silence: l’importanza della punteggiatura

La punteggiatura, si sa, è una parte importante della scrittura. Sebbene in alcuni casi la percezione delle pause nel discorso vari da persona a persona, esistono alcune regole fisse, che non sono però le stesse per tutte le lingue. Non mi metterò ad analizzare la differenza nell’uso delle virgole, dei trattini medi o dei due punti in lingue diverse, tranquilli: l’idea di questo post nasce dal poeticissimo tumblr The Text Is Silence, che mostra la punteggiatura di alcuni brani tratti da libri famosi. Solo la punteggiatura, niente testo. Trovo davvero meraviglioso scoprire quanto possano differire due autori, due libri, due stili, anche senza parole.

Mi è quindi venuta la curiosità di confrontare la punteggiatura di alcuni celebri incipit in lingua originale con quella della loro traduzione in italiano. Ho seguito lo stesso principio di The Text Is Silence, cancellando le parole e lasciando al loro posto soltanto punti, virgole e così via.  Per comodità ho colorato in modo diverso i vari segni di interpunzione. Ecco il risultato.

Henry Miller, Tropic of Cancer

Tropic

Tropico del Cancro, traduzione di Luciano Bianciardi:

Tropico

Come vedete, in questo primo esempio la “traduzione” della punteggiatura è piuttosto fedele all’originale. L’unica cosa che salta all’occhio è che in italiano la prima frase è più breve che in inglese, caso più unico che raro.

Daniel Defoe, Robinson Crusoe

Robinson_or

Robinson Crusoe, traduzione di Alberto Cavallari:

Robinson_ita

Qui le cose iniziano a farsi più interessanti: dalla presenza di quattro due punti sembra quasi che in italiano si sia avvertita la necessità di spiegare, mentre in inglese il discorso filava scandito da sole virgole. Probabilmente in italiano non filava troppo bene, data la lunghezza della frase: notate che nella traduzione vi è un’unica lunghissima frase, mentre in inglese le frasi sono due, anche se la seconda in effetti è molto lunga.

Mordechai Richler, Barney’s Version

Barneys

La versione di Barney, traduzione di Matteo Codignola:

La versione di

In questo caso la versione italiana, a parte essere leggermente più lunga dell’inglese (come spesso accade), sente il bisogno di aggiungere qualche parentesi. Si tratta di un libro molto particolare, con una scrittura fluida e difficile da riprodurre, e probabilmente tradurlo ha richiesto una certa dose di inventiva da parte del traduttore, che ha dovuto restituire un discorso che suonasse verosimile e adatto al personaggio. Anche a costo di modificare un po’ la punteggiatura.

Thomas Mann, Buddenbrooks

Buddenbrook_orig

I Buddenbrook, traduzione di Ervino Pocar:

Buddenbrook_it

In questo esempio dal tedesco possiamo notare come la punteggiatura sia cambiata parecchio: a parte i diversi modi di indicare il dialogo, dovuti alle norme delle case editrici (virgolette nel primo caso, trattini nel secondo) sono stati inseriti punti interrogativi, puntini di sospensione e trattini medi. Non conosco il tedesco e probabilmente questi cambiamenti rispecchiano la grande diversità fra le due lingue. Io la trovo una cosa molto affascinante. Sono malata, lo so.

Louis Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit

Voyage

Viaggio al termine della notte, traduzione di Ernesto Ferrero:

Viaggio

Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una scrittura estremamente particolare e distintiva, che si riflette anche nella punteggiatura: il discorso appare sincopato, costellato di punti esclamativi, punti e virgola e frasi molto lunghe. Sebbene con qualche spostamento, l’impatto visivo dei due “testi bianchi” è simile.

Federico García Lorca, Poema doble del lago Eden

Cante

Doppio poema del lago Eden, traduzione a cura di Claudio Rendina ed Elena Clementelli:

Poema

E dopo testi di narrativa in inglese, tedesco e francese vediamo ora un poema tradotto dallo spagnolo: ovviamente il numero di versi è rispettato, ma come potete notare la punteggiatura, anche in queste poche righe, cambia parecchio. Innanzitutto i primi versi appaiono più brevi in italiano. Poi, data la possibilità dello spagnolo di segnalare una frase esclamativa con il punto esclamativo rovesciato all’inizio, nella prima versione non c’è stato bisogno di rimarcare ogni esclamazione, mentre in italiano sì, perché il solo punto esclamativo alla fine non sarebbe bastato per comprendere anche i versi precedenti. Le tre virgole che vedete incolonnate nella seconda strofa indicano la separazione fra un’interiezione e il resto della frase, mentre in spagnolo essa viene inserita nel discorso senza virgole.

 

Insomma, come potete notare, la punteggiatura “parla”. Ho voluto inserire anche i nomi dei traduttori di questi brani perché, sebbene manchino le parole da loro tradotte, anche la punteggiatura può esprimere una scelta personalissima. In linea di massima la punteggiatura dell’originale andrebbe rispettata, ma, come abbiamo visto, in certi casi l’importante è mantenere l’effetto complessivo, la scansione generale del discorso. Sebbene i casi di cui sopra presentassero delle modifiche, mi pare che nessuno di essi abbia completamente stravolto il respiro del testo originale.

Io trovo bellissimi questi riquadri, e ringrazio ancora The Text Is Silence per l’idea. Se qualcuno ha altri brani da proporre, farà la felicità di questa povera fissata. Forse dovrei davvero fondare l’accademia del punto e virgola di cui parlavo tempo fa con alcuni amici altrettanto fissati. O magari mi limiterò a continuare a scavare in mezzo alle parole.

 

 

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