L’orecchio del traduttore

Tempo fa, una persona che traduce da parecchi anni e che stimo moltissimo mi ha detto che possiedo il famoso “orecchio del traduttore”. L’ho trovato un complimento meraviglioso quanto inaspettato, e ho cominciato a riflettere su che cosa significhi davvero questa espressione così usata (e talvolta abusata).

È un concetto piuttosto difficile da spiegare, e spesso ci si barrica dietro il concetto che uno “o ce l’ha, o non ce l’ha”, fine. Cosa verissima, ma fino a un certo punto. L’orecchio del traduttore è una qualità che non tutti possiedono, ma che come molte abilità va coltivata, curata, mantenuta in vita. Come? Semplice: leggendo. Leggendo non solo voracemente tutto quello che ci capita sottomano, ma anche e soprattutto selezionando cosa leggere. È importante e inevitabile nutrirsi di libri tradotti, ma senza farsi condizionare troppo, per evitare di contribuire a creare una sorta di interlingua che assomiglia all’italiano e alla lingua straniera insieme, che calca lessico e strutture sintattiche, che, insomma, non è il vero italiano.

Leggere letteratura italiana è fondamentale. In particolare, i classici come I promessi sposi (lo so, lo so, li abbiamo letti tutti alle superiori, ma rileggerli con la consapevolezza del linguaggio che abbiamo acquisito crescendo e studiando è un’altra cosa) sono ottimi mezzi per abituare il nostro cervello a pensare e scrivere in un italiano elegante e corretto. Ovviamente ogni libro ha il suo stile, e non si può certo tradurre un autore contemporaneo con la lingua di Manzoni (esserne capaci, poi…), ma è importante avere “nell’orecchio”  un certo tipo di fraseggio. Ovviamente, ciò non implica che la letteratura italiana contemporanea non sia altrettanto valida: bisogna solo saper scegliere bene.  A questo proposito, vi consiglio una raccolta di racconti di Michele Mari, finissimo conoscitore della lingua italiana: si intitola Tu, sanguinosa infanzia e al suo interno troverete anche uno splendido racconto sul valore delle traduzioni, oltre a uno sull’importanza degli autori che si leggono da bambini.

Ma torniamo all’orecchio del traduttore. Ora che sapete come esercitarlo, provate a scrivere, ogni tanto, invece di tradurre: vi accorgerete se le frasi vi vengono fuori facilmente, se la sintassi è pesante o scorrevole, se il lessico è banale o ricercato. Ovviamente lo scopo della traduzione non è sostituirsi all’autore. Tuttavia, esercitarsi un po’ con la scrittura, e accorgersi di quanto è difficile essere chiari senza scadere nell’ovvio, può fare solo bene. Meglio ancora, fate leggere a qualcuno i vostri scritti, chiedendogli di vestire i panni di un critico spietato. Tra parentesi, questo vale anche per le traduzioni: una frase che sembra chiarissima a noi che l’abbiamo riletta mille volte potrebbe risultare oscura a chi la vede per la prima volta. Anche leggere i testi a voce alta è utilissimo: spesso se ci si inceppa nella lettura vuol dire che qualcosa in quella frase non funziona. La lettura deve risultare fluida, scorrevole, e il lettore non deve mai fermarsi stupito da una scelta linguistica. Quante volte, leggendo libri tradotti, ci è capitato di fare un salto sulla sedia trovandoci di fronte a una parola stonata? A volte è “colpa” del testo originale, ovvio (bisognerebbe poi capire se tale effetto è voluto, ma degli autori mediocri parleremo in uno dei prossimi post).

È difficile spiegare perché certe costruzioni suonino meglio di altre, ed è qui che entra in gioco la sensibilità del famoso orecchio. Una buona traduzione somiglia a una melodia in cui non si trovino dissonanze e salti improvvisi. Certe parole sono oggettivamente cadute in disuso, oppure risultano poco armoniche in una determinata frase: alleniamoci a riconoscerle e a sceglierne di più appropriate.

Credo non ci sia bisogno di aggiungere che se non ci si abitua fin da piccoli a giocare con le parole e a studiare la struttura delle frasi, serve a ben poco leggere di tutto in età adulta, perché sarà una lettura superficiale e poco consapevole, oppure difficoltosa.

L’orecchio del traduttore, in fondo, non è altro che un amore cronico, inesauribile e particolarmente sviluppato nei confronti della propria lingua. E questo amore comporta una sensibilità coltivata con cura e protetta dagli abusi, oltre che un contatto quotidiano, appassionato e viscerale con le parole e la sintassi.

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