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Tradurre Kent Haruf: incontro con Fabio Cremonesi

IMG_20160509_105409Su questo blog non ho mai parlato di Kent Haruf, i cui romanzi ho invece recensito su Solo libri belli. Lo faccio ora perché oggi esce Crepuscolo, il terzo volume della sua Trilogia della Pianura, e qualche giorno fa mi è capitata una cosa pazzesca. Sono stata invitata alla presentazione in anteprima, insieme a blogger e giornalisti – a proposito, non mi considero una “blogger” e se mi chiamate così probabilmente mi offenderò – nella sede della casa editrice che pubblica Haruf, la NN.

Il motivo per cui ne sto parlando qui è che all’incontro – essendo Haruf ahimé defunto – è intervenuto il traduttore Fabio Cremonesi, e di conseguenza si è parlato (anche) di traduzione. Non mi metterò quindi a descrivervi esattamente com’è andato l’incontro, i motivi per cui Haruf piace a tutti, le riflessioni che sono nate riguardo alle tematiche dei suoi romanzi, perché c’è già chi l’ha fatto meglio di come potrei fare io: se siete curiosi di conoscere i dettagli vi rimando al post di Elisa, La Lettrice Rampante. Qui vorrei invece soffermarmi sugli aspetti traduttivi.

Innanzitutto, secondo Cremonesi (e io sono perfettamente d’accordo) i due momenti di maggiore felicità per un traduttore sono quello della consegna – nonostante non significhi liberarsi per sempre del libro, ovviamente, dato che bisogna ancora affrontare la revisione e le bozze – e, prima ancora, quello in cui si riesce a trovare la voce del testo, a entrarci davvero.

Quando gli è successo con Benedizione, il primo volume di Haruf da lui tradotto, pensava di essere a cavallo anche per i libri successivi dello stesso autore. E invece Canto della pianura l’ha spiazzato, perché laddove Benedizione ha uno stile asciutto, minimalista, con un lessico di 5-600 parole, Canto della pianura è più ricco di dettagli, di termini anche tecnici, ha un linguaggio più arioso, con più descrizioni, per quanto si parli sempre di Haruf e quindi di una estrema precisione lessicale e di parole cariche di significati, non di sproloqui esagerati. Ci ha quindi raccontato questo aneddoto divertente in cui si è trovato a consegnare Canto della pianura in estremo ritardo, perché pensava di cavarsela più facilmente avendo già tradotto lo stesso autore pochi mesi prima. Crepuscolo invece è più simile a Canto della pianura, per quanto riguarda lo stile.

Un’altra riflessione degna di nota è che in realtà Canto della pianura, sebbene sia stato pubblicato per secondo da NN (qui le motivazioni), è il primo volume scritto da Haruf, ed era già stato tradotto da Fabrizio Ascari nel 2000 per Rizzoli. Cremonesi ha però sottolineato che la sua traduzione – fuor di modestia – è migliore, perché ha avuto il vantaggio di poter considerare la trilogia nel suo insieme (da Canto della pianura a Benedizione, passando per Crepuscolo, l’autore tende a una scrittura sempre più asciutta, passando dalla nascita alla vita alla morte riducendo sempre più all’osso le descrizioni e il lessico). È quindi interessante notare come, nonostante ogni libro sia a sé stante, conoscere tutta la produzione di un autore può aiutarci a tradurre meglio, a entrare nel suo spirito e a comprendere le sue intenzioni.

Un appunto a parte per i dialoghi di tutti i libri di Haruf: secchi, essenziali, secondo Cremonesi si traducono quasi da soli (“C’è quasi da sentirsi in colpa a metterli sul conto dell’editore!”, ha scherzato). Anche perché in questi romanzi la comunicazione è spesso affidata a gesti e sguardi anziché alle parole. Ecco, tradurre la gestualità è un altro discorso, che è già stato affrontato da altri ma che non credo si sia rivelato un problema con un autore attento ed essenziale come Haruf, o se lo è stato Cremonesi ha avuto la capacità di non farlo notare. Fra l’altro ha definito la scrittura di Haruf “affettuosa ma senza smancerie, calda ma non appiccicosa”, e questa definizione mi è piaciuta moltissimo.

Ultima nota a margine, la moglie di Haruf ha raccontato in un’intervista un paio di buffi aneddoti sul modo in cui il marito concepiva la scrittura: per evitare di farsi distrarre da refusi e punteggiatura, batteva a macchina la prima stesura con un berretto calato sugli occhi, per poi riprenderla e correggerla in un secondo momento. Forse è un’immagine bislacca e romantica, ma adoro immaginarlo mentre lascia che la scrittura fluisca dalle sue mani senza interruzioni. Una specie di write drunk, edit sober. Questo per me si ricollega al discorso sul trovare la voce del testo: anche in traduzione, una volta entrati nello spirito del racconto, spesso si va avanti in modo quasi automatico per non perdere il ritmo, senza badare troppo a refusi ed errori che verranno corretti durante l’autorevisione.

Tuttavia, sempre stando alla moglie, pare che Haruf non credesse nell’“ispirazione”: per lui scrivere era un lavoro duro, e si imponeva di farlo ogni giorno, che ne avesse voglia o meno. Ecco, anche qui penso valga lo stesso per la traduzione: malgrado ci siano giorni in cui persino pulire il forno sembra più divertente e appetibile che tradurre l’ennesimo capitolo sull’induismo o sui ghiacci della Groenlandia, è solo con la costanza e la voglia di fare bene il nostro lavoro che riusciremo a dimostrare che meritiamo incarichi più interessanti.

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Ringrazio quindi la NN per questo bellissimo incontro, sebbene io mi trovi molto in imbarazzo in queste situazioni “sociali”. E li ringrazio anche per averci omaggiato, oltre che di una copia di Crepuscolo, anche del nuovo libro di Jenny Offill (altra scrittrice che adoro) e di una serie di gadget che sto già sfruttando al massimo. La prossima settimana si terrà la Kent Haruf Week, quindi se riuscite partecipate ad almeno uno degli eventi organizzati in giro per l’Italia, perché è un autore davvero imperdibile. E se non avete letto i suoi libri correte a procurarveli: da oggi, con Crepuscolo, la trilogia è completa!

 

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