Di critiche, errori e scelte

criticismbAvevo in mente già da un po’ di scrivere questo post, dato che il materiale sull’argomento continua ad accumularsi: sempre più spesso si trovano in giro critiche più o meno ragionate al lavoro e alla professionalità altrui.

Credo che ultimamente sia cominciato tutto dalla famosa diatriba sulla traduzione della scena di Game of Thrones in cui viene mostrata l’origine del nome di Hodor. Se ve la siete persa, trovate qui un’interessante intervista a Matteo Amandola, che si è trovato alle prese con il difficile compito di mantenere l’assonanza “hold the door-Hodor” in italiano. Ecco, da quando la puntata è stata sottotitolata e poi doppiata in italiano la rete si è scatenata con critiche, lamentele e pareri non troppo costruttivi.

Tutti si sono sentiti in dovere di criticare la scelta del traduttore/adattatore, ma pochissimi sono stati in grado di fornire proposte alternative davvero valide. Molti non hanno nemmeno colto il problema, suggerendo soluzioni impraticabili per una serie televisiva. Ecco, questa ansia di criticare il lavoro altri, imperversata per settimane, mi ha sconvolta non poco.

Perché le scelte di un traduttore sono personali e come tali soggette a critiche, è vero, ma penso che chi non si è mai cimentato in questo lavoro non possa rendersi conto delle sue effettive difficoltà. Per carità, anche uno spettatore o un lettore hanno il diritto di esprimere la propria opinione, ma spesso non hanno idea di quello che c’è dietro a una traduzione, delle ore di fatica e ricerche, dei tempi di consegna strettissimi, delle parole che si incrociano davanti agli occhi e di quei momenti in cui anche la soluzione più semplice non riesce proprio a venirci in mente.

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Criticare è sicuramente più facile che proporre soluzioni, così come distruggere è più facile che creare. Lo faccio anch’io, perché mi trovo spesso a leggere le traduzioni altrui non solo per svago, ma anche per lavoro, quindi con occhio più attento e avendo sotto mano il testo originale. In questo modo è piuttosto facile notare calchi, soluzioni goffe e imprecisioni, ma cerco sempre di non fermarmi alla singola frase o al paragrafo che ho di fronte: quando si traduce un intero libro, è inevitabile che prima o poi l’attenzione cali. Certo, sarebbe meglio se non accadesse, e l’occhio esterno del revisore è imprescindibile per correggere la maggior parte di questi scivoloni, ma siamo pur sempre esseri umani.

È forse il caso delle critiche rivolte a Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout, autrice recentemente passata da Fazi a Einaudi e dalla voce di Silvia Castoldi a quella di Susanna Basso. Entrambe traduttrici di altissimo livello, quindi, eppure quest’ultimo libro ha suscitato non poche perplessità per alcuni punti in cui forse l’editing è stato poco attento, lasciando regionalismi e frasi un po’ discutibili come le seguenti:

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Testo originale: “she told her husband that she had to realize herself more fully”

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Questa devo ammettere che al mio orecchio non risulta strana, perché sono piemontese come Susanna Basso (e come l’Einaudi): per noi è normalissimo dire per esempio “faccio terza liceo”, ma è un regionalismo, in italiano corretto ci vuole l’articolo (faccio la terza)

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Qui a stonare è la virgola tra il soggetto e il verbo, oltre a quel “giusto” che sembra proprio un calco un po’ pigro del “just” inglese

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Il passato remoto in mezzo alla frase al trapassato mi ha lasciata un po’ perplessa

Ma ci sono anche passi di innegabile bellezza, che rivelano la penna elegante di Susanna Basso, ad esempio:

“Questa non è la storia del mio matrimonio. Quella non la saprei raccontare: non sono in grado di afferrare, né di esporre ad altri gli innumerevoli pantani e i prati verdi e le ventate di aria fresca e le cappe di aria chiusa che ci sono passati addosso.”

Diverso è invece il caso di quando il traduttore ha fatto una scelta ragionata e proprio per questa viene attaccato, come è successo a Claudia Zonghetti per la sua recente ritraduzione del classico Anna Karenina. Paolo Nori, sul suo blog, ha analizzato le prime tredici righe dell’opera e ha “simpaticamente” massacrato le decisioni della collega.

Ecco, questo è uno dei casi in cui, anche se chi muove le critiche è un traduttore e quindi probabilmente possiede le competenze necessarie, l’attacco risulta davvero troppo personale e offensivo per essere ritenuto legittimo. Inoltre le critiche di Nori non sono particolarmente convincenti, come ha spiegato benissimo Leonardo Marcello Pignataro in un suo post su Facebook che mi permetto di citare come esempio di analisi ragionata e fondata.

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Perché tutta questa ansia di criticare, insomma? Ovviamente non capita solo ai traduttori di trovarsi nel mirino della furia altrui, ma tutti questi esempi mi hanno insegnato a mettermi nei panni di chi viene criticato, prima di accanirmi sugli errori degli altri. Perché magari quell’articolo mancante, quella virgola di troppo, quel giro di frase un po’ traballante sono il risultato di mesi di privazione del sonno e di altri passi di meravigliosa fluidità (oppure riproducono un’asperità del testo originale), e quella scelta che a me sembra poco consona potrebbe essere il frutto di incastri, ricerche e compensazioni ragionate.

Avere un’opinione è legittimo, usarla per svilire la fatica altrui no. Sicuramente abbiamo tutti il diritto di esprimere le nostre perplessità su un prodotto commerciale come un libro, che abbiamo acquistato e quindi pagato, ma forse dovremmo fermarci un attimo a riflettere su quello che c’è dietro, prima di partire in quarta con le accuse (a meno che il prodotto non sia scadente in modo scandaloso, ovvio.Un esempio lo trovate qui). Se proprio non riuscite a trattenervi, scrivete in privato alla casa editrice o al traduttore: se le vostre critiche sono fondate, quasi certamente saranno felici di accoglierle e di correggere gli errori nell’edizione successiva.

Pensare sempre di poter fare meglio di qualcun altro è dannoso e inutile: pensiamo invece a dare il meglio quando è il nostro turno, perché la prossima volta al posto di quel traduttore massacrato potremmo esserci noi.

 

13 commenti

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13 risposte a “Di critiche, errori e scelte

  1. Ottima analisi, concordo con le tue riflessioni.
    Sullo “scandalo” Hold The Door di Game of Thrones io stessa ho tentato di analizzare le scelte di adattamento nell’articolo pubblicato sul blog di Italiansubs ( http://blog.italiansubs.net/rese-impossibili-quando-intraducibilita-fedelta-e-creativita-si-incontrano/ ), oltre all’analisi di altre sfide linguistiche più o meno semplici.

    Il punto è proprio non sentirsi migliori di altri colleghi, ma muovere delle critiche costruttive se e quando si hanno gli strumenti per farlo. Ma soprattutto senza malizia o cattiveria… Non serve a nulla scagliarsi contro un traduttore in maniera aspra, dipingendolo come il peggiore dei traditori. Siamo esseri umani, sbagliamo ed è giusto farlo presente, ma sempre con il giusto tatto e nelle giuste sedi.

  2. Hold The Door dimostra una pessima gestione non della traduzione, ma del rapporto tra produttori e acquirenti di una serie. Secondo me è uno di quei giochi di parole che andrebbe segnalato fin dall’inizio quando si vendono i diritti di un’opera sapendo che sarà necessaria una traduzione, come è stato fatto ad esempio per certi nomi di Harry Potter. Starà poi al traduttore, sapendo che c’è un gioco di parole, trovare una variante anche del nome che lo renda anche nella traduzione. Ora mi vengono Chiurta e Tierta, che fanno cagare entrambi e me ne rendo conto, però sapendolo invece che mantenere Hodor si poteva studiare qualcos’altro. Insomma, comunque è sempre colpa di Martin.
    Certo, però dovremmo discutere della fantastica traduzione dei LIBRI di ASOIAF, dove i cervi diventano unicorni perché non fanno abbastanza fantasy…

    Ma lo sapete che tutti sono neanche dei traduttori, ma dei direttori di doppiaggio non scoperti, sigh… Poi gli fai notare che non si tratta solo di tradurre, ma che vanno rispettati i tempi delle battute e magari una fonetica che si avvicini il più possibile a un lip-sync malgrado il cambio lingua e ti fissano con gli occhi a palla come un cervo davanti ai fari…

    • Già, la questione è sicuramente più complessa di quanto possa sembrare… Io i libri non li ho letti (non è proprio il mio genere, sebbene apprezzi la serie tv), quindi non sapevo dei cervi-unicorni! Tremendo! Per Hodor invece temo proprio che sia come dici tu, Martin non avrà minimamente pensato di comunicarlo in tempo per i poveri traduttori stranieri :D

    • Francesco

      Sì, sarebbe stata la soluzione migliore, ma dubito sinceramente che Martin avesse già in mente quella scena quando ha scritto i primi libri (la Rowling aveva pianificato tutto, è vero, ma Martin non credo).
      E c’è anche da dire che (purtroppo, visto il maledetto Altieri) i libri sono già stati tradotti, quindi il fatto di cambiare il nome ad un personaggio (peraltro dotato di un nome apparentemente “normale”, cioè non significativo come ad es. i nomi delle roccaforti quali Winterfell o Dreadfort) quindi già mi immagino il putiferio (con me in testa – sono del tutto contrario alla traduzione dei nomi, sia da fruitore di opere che da traduttore, a meno che non sia una specifica richiesta del cliente).e tutti a chiedersi perché cambiare nome proprio ad Hodor…

  3. Serena

    Tutto ciò però ha il pregio di far parlare del lavoro di traduzione. Che anni fa era passato sotto silenzio. Inoltre fa capire al lettore che la fretta non è ica del lavoro ben fatto. In questo caso sto parlando delle case editrici.

  4. Pingback: Settimana 36- 2016 – Debora Serrentino – Foodie Translator

  5. Sandra

    E’ stato un passaggio spiazzante per i fedelissimi della Strout quello da Castoldi a Basso. Un piccolo tradimento, uno sbalordimento tanto sottile quanto non necessario. Gli esempi che lei cita non dovevano sfuggire all’occhio attento dell’editor, ma la vera trasformazione, in my opinion, si ha nei dialoghi e nella punteggiatura che detta il ritmo del periodo. Peccato.

  6. Francesca

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