Archivi del mese: Maggio 2013

La traduzione al Salone del Libro 2013

SALONE 2013 NO LOGHIIn colpevole ritardo, eccomi qui a raccontare com’è stato per me il Salone del Libro 2013. Non mi soffermerò sulla quantità di libri presenti, sulla stanchezza per i chilometri percorsi avanti e indietro fra gli stand, sul mal di schiena da troppi cataloghi, volantini e acquisti vari, e mi concentrerò sugli incontri in cui si è parlato di traduzione. O almeno ci proverò, perché è difficile prescindere dall’atmosfera della fiera libraria più importante.

Il bello del Salone, infatti, è poter girare fra centinaia di stand (magari evitando come la peste quelli dei gruppi editoriali più grossi – tanto di certo non ci saranno gli editori in persona, i loro libri li potete trovare ovunque, e non fanno neppure lo sconto) e conoscere piccole e coraggiose realtà indipendenti, fare incetta di libri che difficilmente avreste scoperto in altro modo, raccogliere cataloghi, parlare con gli editori, informarsi e spezzare un po’ la “solitudine del traduttore” sempre chiuso da solo in casa. Ma veniamo ai seminari sulla traduzione, un’occasione per imparare qualcosa oltre che per incontrare i colleghi.

Ovviamente anche quest’anno sono stati gli incontri organizzati da Ilide Carmignani per l’Autore Invisibile a farla da padrone, con un programma serrato che per essere seguito a fondo avrebbe impedito di girare per più di mezz’ora consecutiva fra gli stand.

Ho quindi fatto una selezione dei seminari che mi premeva di più ascoltare. Mi dispiace molto aver dovuto saltare il giovedì, quando Elisa Comito di STradE ha parlato di contratti. Anche l’incontro “Editoria in transizione: capire i cambiamenti per cogliere le opportunità di lavoro” dev’essere stato interessante, e se qualcuno ha potuto partecipare lo invito a condividere l’esperienza nei commenti.

Il venerdì è stato il mio primo giorno di fiera, e subito mi sono fiondata a sentire “Come si fa una proposta editoriale”. Niente che non sapessi già, devo ammettere, anche se è sempre utile ascoltare il parere di editori diversi.
In questo caso, Simona Olivito di e/o ha detto che loro accettano volentieri le proposte interessanti a patto che si tratti di una storia “bella”, che valga la pena diffondere. Chiedono una cartella di presentazione del libro e dell’autore (compresi trama, biografia, eventuali premi vinti, possibili fondi per la traduzione, eventuali opere precedenti, insomma, un gran lavoro) e poi dieci pagine di traduzione. La pecca è che, se la proposta viene ritenuta meritevole ma la traduzione non è all’altezza, possono decidere di acquistare comunque i diritti del testo e di farlo tradurre a qualcun altro: occhio quindi alle traduzioni di prova che mandate, sono il vostro biglietto da visita e dovete dare il meglio. Il consiglio è inoltre di “mirare bene” a chi mandare la proposta, studiando il catalogo recente della casa editrice: una proposta inviata a casaccio non vi fa fare bella figura. Inoltre, e/o preferisce autori giovani di cui si possa poi seguire la produzione futura (anche se non esclude autori più anziani).

Angelo Molica Franco, di Delvecchio, è intervenuto ricordando che per diventare traduttori e per fare una proposta ben mirata è necessario leggere moltissimo, sia in italiano sia in lingua straniera, per conoscere a fondo l’orientamento delle varie case editrici e il mercato editoriale in generale. Siccome non è possibile leggere proprio tutto, ha consigliato di studiare le sinossi sui cataloghi per capire le varie linee editoriali, e poi di seguire i vari premi assegnati agli scrittori e di iscriversi alle newsletter delle case editrici.

Lorenzo Ribaldi, de La Nuova Frontiera, ha ricordato che loro traducono solo dallo spagnolo e dal portoghese, e ha ammesso che la maggior parte dei titoli che escono per loro li sceglie direttamente lui, sotto consiglio degli autori già pubblicati o in base alla sua approfondita conoscenza del mondo latinoamericano. Sono comunque disposti a ricevere proposte, se interessanti e ben studiate.

Il sabato, invece ho seguito “Traduzione e riscrittura nella letteratura per ragazzi”: erano presenti i redattori di Piemme, Mondadori Ragazzi, Gallucci e RCS. Si è scatenato un piccolo dibattito fra chi sosteneva che bisogna rendere i libri accessibili a bambini e ragazzi evitando di utilizzare un lessico troppo elevato e lontano dalla lingua parlata, e chi preferisce diffondere tra i ragazzi un linguaggio più ricercato. In generale, comunque, bisogna sempre considerare qual era l’intenzione dell’autore. Il traduttore deve essere anche autore, ma senza arrivare al limite estremo della riscrittura: è necessario saper stabilire dove fermarsi quando ci si allontana un po’ dal testo di partenza. Un problema particolare e molto interessante è quello dei “nomi parlanti”, ovvero quelli che evocano qualche caratteristica dei personaggi. In questo caso il traduttore diventa un creatore vero e proprio.

Poi ho seguito un incontro della serie “Traduttore e revisore a confronto”: non mi ci soffermo perché si parlava di due libri in particolare, ma è comunque sempre interessante osservare come due teste diverse si accordano, si compensano e si aiutano a vicenda per arrivare a ottenere un testo il più “fedele” possibile, arginando gli eccessi in entrambi i sensi (traduzioni troppo foreignizing o troppo domesticating).

La domenica ho seguito solo metà della lectio magistralis di Susanna Basso “Di che cosa parliamo quando parliamo di traduzione”, e non perché non fosse interessante, ma perché mezz’ora dopo iniziava un incontro sui blog letterari che mi premeva seguire. La Basso è comunque sempre una grandissima maestra, oltre che una persona deliziosa. Ho fatto in tempo a sentire le sue riflessioni su come la traduzione sia “quello che non sto facendo quando faccio qualsiasi altra cosa”. Ovvero, mentre fai tutt’altro la traduzione è sempre lì che ti aspetta, è una presenza discreta ma costante, e quando poi ci si rimette sopra si avverte il sollievo del tornare a fare ciò che è giusto.

Ho provato anche a seguire la conferenza con Gianni Celati sulla sua nuova traduzione dell’Ulisse di Joyce, ma ammetto che l’ho trovata di una noia mortale (anziché parlare della traduzione leggevano alcuni lunghissimi brani del libro) e quindi dopo un po’ ho ceduto alla tentazione di andare a girare ancora una volta tra gli stand.

L’ultimo incontro che ho seguito è stato “Scrivere dopo Bolaño”, in cui tre scrittori cileni (Lina Meruane, Alejandro Zambra e Maria José Viera-Gallo) si sono confrontati su una serie di riflessioni riguardo alla letteratura e al loro paese: è stato davvero piacevole!

Ed eccomi al termine di questo lunghissimo post. Il “mio” Salone è stato stancante, ricco, pieno e fruttuoso, con anche qualche piccola soddisfazione come le fascette con i miei commenti esposte sui libri de La Nuova Frontiera, lo stand dove mi hanno accolta con più calore :)

E voi, c’eravate?

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L’invisibilità del traduttore

signinvisibilityQuando si parla di “invisibilità del traduttore” ci si può riferire a molti concetti diversi.

Prima di tutto, è impossibile non citare il libro di Lawrence Venuti intitolato, appunto, “The Translator’s Invisibility” (pubblicato in Italia da Armando Editore, 1999, traduzione di M. Guglielmi). Nel testo, Venuti cita il traduttore americano Norman Shapiro, secondo il quale

“Una buona traduzione è come una lastra di vetro. Si nota che c’è solamente quando ci sono delle imperfezioni: graffi, bolle. L’ideale è che non ce ne siano affatto. Non dovrebbe mai richiamare l’attenzione su di sé.”

Il concetto di invisibilità rimanda dunque a un vetro perfettamente trasparente attraverso il quale il testo risulti “pulito”, perfetto, come se fosse stato scritto direttamente in quella lingua, scorrevole e senza alcun intoppo. Certo, non è esattamente una missione facile, ma bisogna sempre avere un ideale a cui tendere.

Purtroppo, questo concetto di “invisibilità” è stato esteso al traduttore come lavoratore. Sempre più spesso capita di ricevere proposte indecenti, di pochi spiccioli a cartella, che alcuni accettano perché “fa curriculum”. Ne avevo già parlato nell’articolo sulle proposte da non accettare mai. La situazione dei traduttori editoriali in Italia è piuttosto drammatica: sono ben pochi quelli che riescono a vivere di questa professione, e molto spesso le tariffe non sono degne di un lavoro così lungo e impegnativo: basta dare un’occhiata all’inchiesta sulle tariffe indetta da Biblit per rendersi conto del malcontento generale. Per i traduttori alle prime armi (o comunque per qualsiasi dubbio, che può venire anche ai più esperti) è bene fare riferimento al sito di STradE, che dispensa davvero tanti consigli utili per evitare soprusi e sfruttamenti.

Il concetto di invisibilità è stato ripreso anche da Ilide Carmignani per dare un titolo agli incontri sulla traduzione letteraria che ogni anno si svolgono al Salone internazionale del libro di Torino: ho già parlato in questo post degli interessantissimi seminari organizzati quest’anno da L’Autore Invisibile. Eh già, perché giovedì 16 maggio inizia il Salone! Ovviamente è un appuntamento importantissimo, se potete non mancate: le tavole rotonde e l’opportunità di parlare con gli editori (almeno quelli delle case editrici più piccole, di certo non troverete “il signor Feltrinelli” allo stand) sono davvero imperdibili.

Sul versante opposto dell’invisibilità del traduttore, avete letto la storia dei traduttori di Dan Brown rinchiusi in un bunker? Perquisiti all’entrata e all’uscita, sorvegliati da guardie armate, isolati dal mondo e con accesso limitato a Internet: più che un collettivo di traduttori ricorda una squadra costretta ai lavori forzati (con tanto di servizio a tutta pagina su TV Sorrisi e Canzoni, però: che fortunelli!). Non so che dire, spero almeno che li abbiano pagati molto bene, anche se non vedo comunque il motivo di un sequestro del genere, a parte gli ovvi fini pubblicitari: che fine ha fatto la fiducia nell’onestà professionale? Era proprio necessario “rapire” i traduttori e impedire loro persino di dire ai parenti dove si trovassero e per quale motivo? Certo, sicuramente il libro venderà moltissimo (a 25€ a copia poi, i guadagni saranno immensi…), ma a parte non essere un’amante del genere non riesco proprio a evitare che questa storia mi lasci l’amaro in bocca. E non certo per l’invidia!

Mi fanno giustamente notare che non ho citato i nomi dei traduttori di Inferno: per completezza dovrei citare tutti quelli che hanno vissuto l’esperienza nel bunker, ma qui mi limito a nominare Nicoletta Lamberti, Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli, le traduttrici italiane. Gli altri nomi li trovate in questa intervista. Mi assicurano inoltre che le condizioni di lavoro erano professionalmente oneste e non ho alcun motivo di dubitarne. La mia perplessità riguarda soltanto la scelta degli editori, non certo quella dei traduttori, che sono professionisti e il cui lavoro ovviamente ha tutto il mio rispetto.

Come abbiamo visto, la parola “invisibilità” può avere tante sfaccettature per un traduttore: mettersi al servizio del testo senza che la nostra personalità lo influenzi, diventare un vero e proprio “autore invisibile”, ma anche dover combattere ogni giorno per i propri diritti e scoprire che pochissimi, quando leggono un libro tradotto, si rendono conto che le parole che hanno davanti agli occhi sono state accuratamente scelte da un traduttore, pur in accordo con quelle dell’autore.

Insomma, in un certo senso l’invisibilità sarà pure una condizione auspicabile per un traduttore, ma per altri versi è assolutamente necessario uscire dall’ombra e far sentire la nostra voce.

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La fedeltà

Girl-Hugging-Words1È ormai famoso il detto traduttore traditore, che fonda su una semplice paronomasia tutta una serie di implicazioni negative. In realtà a volte “tradire” (e ora vedremo che cosa significa in campo traduttivo) è necessario, altre volte invece è questione di disattenzione o scarsa dimestichezza con una lingua.

In teoria, il traduttore di un testo è colui che dovrebbe restituirlo così come l’ha trovato, in modo fedele, ma semplicemente in un’altra lingua. Semplicemente. Facile, no?

No. A volte un traduttore si trova costretto a tradire proprio per poter essere il più fedele possibile. Per spiegare quanto detto bisogna innanzitutto stabilire che cosa significhi il concetto di fedeltà: innanzitutto, fedeltà a che cosa? Alla lettera? Al senso? Alle intenzioni dell’autore, che spesso è difficile comprendere fino in fondo? Riflettendoci bene, appare evidente come queste tre possibilità siano diverse e in alcuni casi quasi opposte. Nemmeno la risposta è univoca e, come spesso accade, va negoziata caso per caso.

Se stiamo traducendo un libro il cui proposito è intrattenere e divertire, privilegeremo la scorrevolezza. Per esempio, le parole inglesi sono molto più corte di quelle italiane, e nella nostra lingua la sovrabbondanza di aggettivi si nota molto di più. Se stiamo traducendo un Harmony, qualche aggettivo di troppo si può anche sfrondare, per non far perdere il filo della narrazione. Se invece si tratta di un autore che fa dello stile il suo cavallo di battaglia, dovremo fare molta più attenzione alle nostre scelte e badare in particolar modo alla forma invece di veicolare semplicemente i contenuti. Attenzione, non sto dicendo che nel primo caso possiamo tradurre alla meno peggio, né che un Harmony abbia meno dignità di un saggio filosofico in cui trovare la parola più precisa è fondamentale. Anche la scorrevolezza è molto difficile da ottenere: richiede impegno e un ottimo orecchio.

Certo, la differenza fra un testo e l’altro non è sempre così evidente e marcata, molti autori cercano di essere coinvolgenti pur senza trascurare una certa raffinatezza stilistica. Bisogna fare molta attenzione a non tradire le loro intenzioni. Per farlo, ovviamente, dobbiamo averle capite. Facciamo un esempio estremo: se un autore sceglie di scrivere un romanzo senza mai usare la lettera “e”, qualsiasi sia il motivo, dobbiamo accorgercene e rispettare la sua volontà, anche se questo ci costringe a fare voli pindarici e a non tradurre proprio tutto alla lettera.

Ma anche senza andare troppo in là, essere fedeli può voler dire semplicemente scegliere, quando possibile, il termine più vicino a quello usato dall’autore, senza voler impreziosire a tutti i costi un testo che magari ci sembra mediocre: ricordiamo sempre che il romanzo non è nostro. Va da sé che si deve evitare anche il rischio opposto, quello di impoverire il lessico o la sintassi per pigrizia o perché non siamo riusciti a trovare niente di meglio.

A questo proposito, qualsiasi traduttore sa che purtroppo a volte, a malincuore, bisogna rinunciare a qualcosa. Riferimenti culturali specifici, modi di dire, giochi di parole: spesso è impossibile trovare un’equivalenza nella nostra lingua, e bisogna arrangiarsi con una traduzione didascalica che spieghi in pochissime parole di cosa si sta parlando, oppure arrendersi alla famigerata nota a pie’ di pagina, terrore di quasi tutti gli editori. Queste soluzioni, però, soprattutto se vi ricorriamo spesso, appesantiscono molto il testo.

È molto noto il concetto delle traduzioni belle e infedeli, contrapposto, di conseguenza, a un concetto di fedeltà come ostacolo alla bellezza. È vero che non si può sempre avere tutto, ma la questione è molto più complicata. Nel caso di un romanzo in cui la scorrevolezza è più importante della correttezza filologica, potrebbe essere più fedele una traduzione che vada incontro al lettore senza presentargli una gran quantità di riferimenti a lui incomprensibili. In altri casi, però, è importante mantenere tali riferimenti e il lavoro del traduttore si trasforma in un vero e proprio veicolo culturale, che arricchisce il lessico e le conoscenze del lettore.

Esempio banale: se in una scena troviamo una persona adulta che mangia una merendina, potrebbe essere importante capire se la marca di quest’ultima richiama per qualche motivo l’infanzia del protagonista (basti pensare ai ricordi nostalgici che le vecchie pubblicità scatenano in molti di noi), e quindi è opportuno mantenerla così com’è o cercarne una equivalente conosciuta sia nel paese d’origine sia nel nostro, oppure se è un dolce qualsiasi e quindi si può anche sorvolare. Non c’è una ricetta precisa né una formula magica per capire com’è meglio agire: bisogna “semplicemente” riuscire a entrare nel testo, a farlo nostro, a comprendere che cosa voleva l’autore, che cosa riteneva importante comunicare e cosa invece è stato inserito senza rifletterci troppo.

Insomma, la fedeltà è un territorio spinoso. Bisogna sempre chiedersi a che cosa vogliamo essere fedeli, qual è lo scopo del testo, a che pubblico è rivolto, e regolarsi di conseguenza.

Credo di avere sbrodolato fin troppo, e forse sono anche andata fuori tema, quindi per stavolta mi fermo qui, ma la fedeltà in traduzione è un concetto affascinante che merita di essere sviluppato in futuro.

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