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Il giovane Holden di Matteo Colombo

holdenAnche stavolta una premessa: avevo intenzione di scrivere un post confrontando attentamente alcuni passaggi delle due traduzioni principali del giovane Holden, quella di Adriana Motti del 1961 e quella di Matteo Colombo del 2014. Poi però, mentre leggevo, sono stata completamente rapita e quindi buonanotte, ho scritto soltanto un post sul libro in generale, che ho pubblicato sull’altro mio blog, Solo libri belli. Lo incollo qui perché si parla anche di traduzione.

Il fatto che un capolavoro come Il giovane Holden, con tutto l’immaginario che rappresenta, sia stato quest’anno ritradotto da Matteo Colombo è una notizia tutt’altro che trascurabile.

Ritradurre i classici è sempre una sfida e un pericolo, ma tanto di cappello a Colombo: ha centrato in pieno l’obiettivo. Lo dico senza mezzi termini: la sua traduzione è limpida e necessaria.

Avevo letto Il giovane Holden nella traduzione di Adriana Motti intorno ai 13-14 anni, rubandolo a mio fratello e rimettendolo esattamente nello stesso posto sul suo scaffale prima che tornasse a casa, la sera. A tappe forzate quindi, senza potermici abbandonare quando ne avevo voglia, ma forse con un valore aggiunto dato dal sotterfugio (ma non glielo potevi chiedere? mi direte voi, e no, rispondo io, avevo 13 anni, chi li capisce gli adolescenti).

Ecco, chi li capisce? Holden, ovviamente, perché con i suoi sedici anni è ancora un adolescente, un ragazzone alto, già con i capelli bianchi su un lato, stufo di tutto, ma con i timori e le frustrazioni tipiche della sua età. La trama penso la conosciate tutti: Holden Caulfield viene cacciato dalla sua prestigiosissima scuola perché è stato bocciato in quasi tutte le materie (tranne che in inglese, perché gli piace un sacco leggere e via dicendo), ma non può ancora tornare a casa perché i suoi genitori non lo sanno. E così si trova a vagare in una gelida New York, sotto Natale, tra bar squallidi, alberghi, telefonate a vecchie conoscenze – che immancabilmente lo deludono – e solitudine estrema. Solo la sua sorellina Phoebe è all’altezza delle sue aspettative: arguta, intelligente, sicuramente bambina ma anche un po’ mamma, affezionata al fratello quanto lui lo è a lei. Holden non sa cosa vuole, non sa cosa gli piace, ma guai a farglielo notare, perché si deprime facilmente. Un adolescente fatto e finito, insomma. La sua avventura è tragicomica, amara ma divertente, vivace ma serissima.

E il bello è che Matteo Colombo l’ha reso davvero un ragazzo di oggi, anzi, senza tempo, senza tutte le espressioni datate della prima traduzione, come il celebre “e vattelapesca”, anche perché – mentre leggevo ho sbirciato sia la traduzione di Motti sia l’originale – Holden non parla affatto in modo ricercato. I vari “e via discorrendo”, “e vattelapesca” erano espressioni semplici come “and all”. Semplicemente ha le sue manie linguistiche, come tutti gli adolescenti usa spessissimo certe espressioni cui è affezionato (prontamente riprese dalla sorellina, che, è il caso di dirlo, mi fa morire).

E quindi questo “nuovo” Holden è davvero giovane, davvero fragile, davvero unico e allo stesso tempo universale, fresco e vivido come se fosse vissuto l’altroieri anziché nel 1951. A tratti è commovente, dolcissimo, altre volte è scontroso e incomprensibile, ammette di comportarsi come un dodicenne ma non riesce a farne a meno. L’Holden che avevo letto quand’ero io stessa adolescente mi aveva affascinata, ma non era così vicino, così immediato, così vero. Era un ragazzetto snob e ricco di famiglia, che si lamentava di tutto e parlava in modo artificioso.

Unico appunto: anziché spendere soldi in fascette, io avrei messo il nome del traduttore in copertina. A parte questo, come dicevo avrei voluto analizzare la nuova traduzione, ma non ce n’è bisogno: molte parole sono già state spese su questa riuscitissima operazione, e mi limito a segnalarvi gli interventi più interessanti:

Divertente carteggio tra Matteo Colombo e l’editor Anna Nadotti
Intervista a Colombo su Il Mucchio
Intervista a Colombo su rivista Studio
Confronto fra le due traduzioni su Linkiesta

Spero davvero che gli adolescenti di oggi abbiano voglia di mettersi nei panni di Holden, almeno per un pochino, perché non sono poi così diversi dai loro.

[…] Ogni tanto mi rompo di sentirmi dire che devo comportarmi come uno della mia età. Certe volte mi comporto come se fossi molto più grande, giuro, solo che a quello la gente non fa caso. La gente non fa caso mai a niente.

 

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Tradurre “I Remember” di Joe Brainard

Ammetto che quando mi è stato proposto di tradurre “I Remember” non sapevo chi fosse Joe Brainard, e non avevo nemmeno letto “Je me souviens” di Perec, ispirato proprio da Brainard. Ho ricevuto il testo e sfogliandolo mi sono resa conto di quanto fosse particolare: frasi brevissime, mai più lunghe di dieci righe, in molti casi una o due righe soltanto, e tutte cominciavano con le stesse parole: “Mi ricordo”. A volte basta citare un oggetto, una marca, una canzone, e subito tornano in mente un mondo e un’epoca ormai lontani. Il libro di Joe Brainard funziona proprio così: un’idea apparentemente semplice, ma in realtà carica di potenzialità che qui vengono sfruttate appieno. Come scrive il suo amico Ron Padgett: “ci rendemmo tutti conto che aveva fatto una scoperta meravigliosa, e molti si chiedevano come mai un’idea così ovvia non fosse venuta in mente a loro”.

Ma non si tratta di un semplice elenco di prodotti e personaggi: Brainard entra in prima persona nel suo libro, espone tutta la propria vulnerabilità di artista, di omosessuale, di bambino e poi ragazzo, di studente, di uomo. E così facendo, come scrive Paul Auster nella prefazione, riesce “a trascendere ciò che è puramente privato e personale in un’opera che parla di tutti. È proprio questa la sensazione: parlando di sé, Brainard riesce a coinvolgere il lettore con una spontaneità e un candore davvero eccezionali, facendolo entrare nella propria storia personale e contemporaneamente stimolando i ricordi del lettore stesso.

Per un libro così atipico, la casa editrice voleva un revisore di tutto rispetto. Io ho avuto la fortuna di averne addirittura due, dopo aver buttato giù la prima bozza di traduzione. In un primo momento ho lavorato con Paola Quarantelli, editor di Lindau, e in seguito anche con Susanna Basso, che credo non abbia bisogno di presentazioni. Ecco come abbiamo impostato il lavoro.

Dopo aver tradotto – un po’ di getto, ma facendo le dovute ricerche e cercando di “entrare” già nel testo – le prime cinquanta pagine, ci siamo incontrate tutte e tre in casa editrice per discutere la strategia da seguire avendo già qualcosa in mano. Ebbene, il mio timore reverenziale nei confronti di un testo così importante mi aveva portata a rimanere troppo aderente all’originale, nel tentativo di conservare il più possibile. Ma quello di Brainard è un libro fresco, immediato, evocativo, ed era quindi necessario staccarsi un po’ dal testo di partenza per restituire lo stesso effetto in italiano. Ovviamente questo non poteva avvenire nella prima bozza di traduzione, che deve necessariamente restare vicina al testo di partenza per evitare che i rimaneggiamenti successivi la facciano allontanare davvero troppo dall’originale.

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Tenendo a mente i consigli ricevuti, ho quindi terminato la traduzione e siamo passate alla seconda fase: Paola ha letto e revisionato tutto il libro, e a mano a mano che andavamo avanti ci incontravamo in casa editrice (la sera, dopo il suo orario di lavoro) per limare ogni singola frase. I suoi suggerimenti sono stati davvero preziosi, e mi hanno aiutata a mettermi nei panni di un lettore italiano staccandomi un po’ – anche se a malincuore – dall’inglese.

A metà lavoro, abbiamo inviato la prima tranche a Susanna Basso. Anche in questo caso le sue annotazioni sono state indispensabili: in molti casi, la sua sensibilità linguistica ha arricchito il testo di una immediatezza di cui Brainard, credo, sarebbe stato orgoglioso. Ricevere i suoi consigli, di persona o al telefono, mi ha resa molto più consapevole e attenta: un bell’allenamento per il famoso “orecchio del traduttore”! Il confronto e la possibilità di dialogare sono un’occasione rara e meravigliosa per chiunque faccia questo mestiere.

Abbiamo proceduto nello stesso modo anche per la seconda metà del libro: lunghissime serate passate in casa editrice con Paola – con la quale per fortuna ho trovato un’ottima intesa – a cercare soluzioni, a snellire le frasi, a riflettere e spesso, molto spesso, a ridere parecchio.

Sì, perché “Mi ricordo” è un libro tenero, commovente, ma anche spassoso e arguto, ricco di esperienze più o meno imbarazzanti, di fantasie, di riflessioni e pensieri che prima o poi sono venuti in mente a chiunque. Brainard si mette in gioco senza vanità, e senza risparmiarci davvero nulla: insomma, se vi scandalizzate facilmente state alla larga da questo libro. Ma, tornando alla traduzione, quali sono state le principali difficoltà?

Innanzitutto, sono state necessarie davvero moltissime ricerche. Io non ho vissuto in America negli anni ’40, ’50 e ’60, e di conseguenza ho dovuto colmare questa lacuna informandomi su un’infinità di siti diversi per cogliere tutti i riferimenti. A volte era molto facile capire di che cosa stesse parlando, altre volte le frasi, nella loro brevità e assenza di contesto, rimanevano oscure e mi facevano dannare. Qualche esempio? “I remember box suits.” “I remember «Lavender past» (He has a…)”. Come ogni traduttore sa, senza contesto a volte è davvero molto difficile stabilire di cosa si parli, ma con molta pazienza e unendo tre teste ne siamo venute a capo.

In altri casi era chiaro a che cosa Brainard si riferisse, ma era difficile rendere lo stesso concetto in italiano perché il lettore non avrebbe riconosciuto certi riferimenti immediatamente comprensibili per un americano. A volte abbiamo optato per una breve traduzione didascalica: per esempio, “I remember Bickford’s” è diventato “Mi ricordo i ristoranti Bickford’s”. Altre volte, per evitare lunghe e in fondo inutili spiegazioni, qualcosa è andato perso, e “car coat” è diventato un semplice giaccone. Per quanto riguarda gli abiti, le acconciature e i personaggi dell’epoca nella maggior parte dei casi è stata sufficiente una ricerca accurata, anche se non sempre, dopo aver capito, era semplice trasporli in modo comprensibile per un lettore italiano.

Numerosi erano anche i giochi di parole: incubo di qualsiasi traduttore, quando sono decontestualizzati e assumono tutta l’importanza di una frase singola, isolata, non è possibile tralasciarli o prendere decisioni arbitrarie. Ve ne lascio alcuni giusto per divertirvi a pensarci sopra, e per quanto riguarda le soluzioni che abbiamo adottato… Le troverete nel libro!

I remember «Your shirt tail’s on fire!» and then you yank it out and say «Now it’s out!»”. Ovviamente qui si gioca sul “fire” che può essere “out” come la camicia può essere “out” dai pantaloni… Impossibile a mio parere trovare una soluzione abbastanza fedele, quindi abbiamo optato per un altro scherzo.

I remember a joke about Tom, Dick and Harry that ended up, «Tom’s dick is hairy»”. Qui il gioco di parole “sporco” è evidente, e in questo caso dopo mille riflessioni e dopo aver stressato un po’ chiunque mi è venuto in soccorso un amico, che mi ha suggerito una soluzione a mio avviso davvero perfetta.

I remember «dress up time». (Running around pulling up girls’ dresses yelling «dress up time»).” Qui l’ambiguità di “dress up” era unita alla difficoltà di trovare un’espressione verosimile, che dei bambini potessero davvero urlare rapidamente correndo qua e là per alzare il vestitino alle femmine.

Avete qualche idea per questi giochi di parole? Sono sicura che esistano tantissime soluzioni diverse, anche se sono piuttosto soddisfatta di quelle adottate nel libro.

Tralasciando questi casi particolari, anche le frasi apparentemente più semplici nascondevano delle insidie: Brainard era un artista, e anche sulla carta gli bastava un accenno di pennellata per evocare tutto un insieme di pensieri, emozioni e sensazioni: un aggettivo, l’ordine delle parole, una parentesi potevano dare a una frase brevissima una forza evocativa incredibile e adatta a essere resa solo in una lingua come l’inglese, in cui la sintesi la fa da padrona. In italiano, per ottenere la stessa immediatezza, è stato a volte necessario perdere qualche sfumatura, guadagnando però in ritmo e spontaneità. Inoltre, qualsiasi traduttore sa bene quanto sia complicato scrivere in modo scorrevole, e quanto lavoro di cesello ci sia dietro una frase apparentemente banale.

A traduzione ultimata, ci siamo trovate un’ultima volta tutte e tre in casa editrice, dove abbiamo discusso anche della prefazione di Paul Auster, che ha adorato questo libro. E sentirmi dire che avevo fatto un ottimo lavoro è stata una delle soddisfazioni più grandi della mia carriera, anche se il merito va certamente condiviso.

Tradurre Joe Brainard è stata un’esperienza intensa, diversa, eccezionale. Sono grata a Paola e alla Lindau per avermi dato questa possibilità. E lavorare con Susanna Basso è stato un sogno che si è avverato. Fatemi sapere come avreste risolto i giochi di parole di cui sopra, e se lo leggerete spero che il libro vi piaccia quanto a me è piaciuto tradurlo.

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Scheda del libro sul sito Lindau
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Corso Tradurre per l’editoria: dall’altra parte della cattedra (virtuale)

10314771_1556409431252554_948702527943379954_nA due settimane dal termine del corso Tradurre per l’editoria, è giunta l’ora di tirare le somme di questa bellissima ed emozionante esperienza.

In passato ho frequentato diversi corsi e seminari sulla traduzione, e sono sempre stata convinta della necessità di imparare da chi svolge realmente questo mestiere. Quando Rossella Monaco, di La Matita Rossa, mi ha proposto di tenere il corso insieme a lei, ho pensato che sarebbe stata un’ottima opportunità per unire le mie esperienze didattiche come insegnante di inglese in una scuola superiore e il mio lavoro da traduttrice editoriale. Insieme abbiamo concordato di dare al corso un taglio il più possibile pratico. Non sapevamo quale sarebbe stato il livello degli iscritti al corso, ma abbiamo comunque scelto di proporre una prova di selezione iniziale perché il livello di conoscenza della lingua permettesse ai corsisti di poter seguire senza difficoltà le indicazioni delle dispense.

Il corso è articolato in 12 lezioni, una alla settimana, ognuna delle quali composta da una dispensa su un particolare argomento, più un esercizio, solitamente di traduzione, ma non solo. Dopodiché, ogni iscritto ha diritto a mezz’ora settimanale (per un totale di 6 ore) di chat a tu per tu con il tutor, per parlare dell’esercizio svolto ed eventualmente per chiarire alcuni aspetti della lezione. Potete trovare il programma del corso sul sito ufficiale, così come le altre informazioni relative a tempistiche e costi, quindi su questo non mi soffermo.

Mi limiterò a dire che scrivere le dispense per me e Rossella è stato un ottimo modo per mettere nero su bianco ciò che abbiamo imparato nei vari corsi e seminari frequentati in precedenza, oltre alle informazioni apprese leggendo le mailing list di traduttori e i siti specializzati. E soprattutto è stata un’occasione per tradurre in metodo ciò che giornalmente ci troviamo ad affrontare nel nostro lavoro di traduttrici per l’editoria. È stato però ancor più interessante confrontarci sugli esercizi svolti, sia con gli iscritti sia tra di noi.

È davvero affascinante scoprire quanti modi diversi ci sono per scrivere una frase. Negli esercizi ho letto scelte di traduzione brillanti, altre un po’ forzate, altre ancora perfettamente accettabili anche se tutte diverse fra loro. Leggere quindici o venti versioni diverse dello stesso brano, se ad alcuni può sembrare noioso, è invece estremamente interessante per chi ama giocare con le infinite possibilità e combinazioni che ci offre la nostra lingua.

I brani selezionati erano molto diversi, di narrativa e di saggistica, e presentavano problemi e dilemmi traduttivi vari. Alcuni iscritti se la cavavano benissimo con certi testi e meno con altri; c’è stato chi ha scoperto con grande sorpresa di preferire la saggistica, chi invece non aspettava altro che il successivo testo di narrativa, o viceversa. Tutto questo ci ha dimostrato ancora una volta che un traduttore, per quanto possa essere un bravo professionista, può essere perfetto per un libro e meno per un altro: è necessario trovare la voce giusta per tradurre ogni testo, ed essere in grado di cambiare questa voce a seconda di quella dell’autore che ci troviamo davanti.

Insomma, il corso ha confermato quanto sia ricco e variegato il mondo della traduzione editoriale. Spesso non esistono una risposta giusta e una sbagliata – a parte gli errori di comprensione o di resa, ovvio – ma solo un amplissimo ventaglio di possibilità traduttive. È difficile trovare e mantenere il registro giusto, risolvere passaggi che in inglese sono brevissimi e in italiano richiederebbero immensi giri di parole per non perdere qualche sfumatura, ma gli iscritti hanno dimostrato una grande consapevolezza. All’inizio il livello era molto vario, c’era chi aveva già studiato lingue e traduzione e chi si avvicinava a questo mondo per la prima volta, chi si gettava a capofitto sugli esercizi e chi aspettava la scadenza imminente per la consegna. A mano a mano che si andava avanti, ognuno notava su quali aspetti doveva lavorare per migliorare la resa. A volte è difficile notare le proprie piccole manie traduttive, se nessuno ce le indica.

Le traduzioni vanno consegnate 24 ore prima dell’incontro in chat con il tutor, incontro che può essere programmato a seconda degli impegni e delle preferenze degli iscritti. È questa la vera forza dei corsi online: la possibilità di un dialogo diretto unita alla comodità di poter scegliere giorni e orari.

Il dialogo è certamente uno strumento preziosissimo, che arricchisce entrambe le parti. Certo, le preferenze personali in traduzione ci sono sempre, ma è importante saperle distinguere dagli errori veri e propri e fare tesoro delle opinioni altrui. Far leggere la propria traduzione o discuterne una insieme è un’esperienza altamente formativa. L’altra persona riuscirà sempre a farci notare cose a cui noi non avevamo fatto caso, e viceversa, ovviamente.

La traduzione richiede estrema attenzione al dettaglio, e se qualcuno ci indica dove guardare è molto più semplice allenarsi a riconoscere certi problemi. Se è vero che non si può propriamente “insegnare a tradurre”, è altrettanto vero che i corsi come questo, a nostro parere, aiutano a crescere e a essere più consapevoli dei propri strumenti. Siamo soddisfatte di questa prima edizione, visto che dai questionari di gradimento dei corsisti i pareri sono stati più che positivi. Ringraziamo dunque tutti gli iscritti. Il corso ripartirà a settembre: le preiscrizioni sono già aperte, vi aspettiamo!

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Translation Is Silence: l’importanza della punteggiatura

La punteggiatura, si sa, è una parte importante della scrittura. Sebbene in alcuni casi la percezione delle pause nel discorso vari da persona a persona, esistono alcune regole fisse, che non sono però le stesse per tutte le lingue. Non mi metterò ad analizzare la differenza nell’uso delle virgole, dei trattini medi o dei due punti in lingue diverse, tranquilli: l’idea di questo post nasce dal poeticissimo tumblr The Text Is Silence, che mostra la punteggiatura di alcuni brani tratti da libri famosi. Solo la punteggiatura, niente testo. Trovo davvero meraviglioso scoprire quanto possano differire due autori, due libri, due stili, anche senza parole.

Mi è quindi venuta la curiosità di confrontare la punteggiatura di alcuni celebri incipit in lingua originale con quella della loro traduzione in italiano. Ho seguito lo stesso principio di The Text Is Silence, cancellando le parole e lasciando al loro posto soltanto punti, virgole e così via.  Per comodità ho colorato in modo diverso i vari segni di interpunzione. Ecco il risultato.

Henry Miller, Tropic of Cancer

Tropic

Tropico del Cancro, traduzione di Luciano Bianciardi:

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Come vedete, in questo primo esempio la “traduzione” della punteggiatura è piuttosto fedele all’originale. L’unica cosa che salta all’occhio è che in italiano la prima frase è più breve che in inglese, caso più unico che raro.

Daniel Defoe, Robinson Crusoe

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Robinson Crusoe, traduzione di Alberto Cavallari:

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Qui le cose iniziano a farsi più interessanti: dalla presenza di quattro due punti sembra quasi che in italiano si sia avvertita la necessità di spiegare, mentre in inglese il discorso filava scandito da sole virgole. Probabilmente in italiano non filava troppo bene, data la lunghezza della frase: notate che nella traduzione vi è un’unica lunghissima frase, mentre in inglese le frasi sono due, anche se la seconda in effetti è molto lunga.

Mordechai Richler, Barney’s Version

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La versione di Barney, traduzione di Matteo Codignola:

La versione di

In questo caso la versione italiana, a parte essere leggermente più lunga dell’inglese (come spesso accade), sente il bisogno di aggiungere qualche parentesi. Si tratta di un libro molto particolare, con una scrittura fluida e difficile da riprodurre, e probabilmente tradurlo ha richiesto una certa dose di inventiva da parte del traduttore, che ha dovuto restituire un discorso che suonasse verosimile e adatto al personaggio. Anche a costo di modificare un po’ la punteggiatura.

Thomas Mann, Buddenbrooks

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I Buddenbrook, traduzione di Ervino Pocar:

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In questo esempio dal tedesco possiamo notare come la punteggiatura sia cambiata parecchio: a parte i diversi modi di indicare il dialogo, dovuti alle norme delle case editrici (virgolette nel primo caso, trattini nel secondo) sono stati inseriti punti interrogativi, puntini di sospensione e trattini medi. Non conosco il tedesco e probabilmente questi cambiamenti rispecchiano la grande diversità fra le due lingue. Io la trovo una cosa molto affascinante. Sono malata, lo so.

Louis Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit

Voyage

Viaggio al termine della notte, traduzione di Ernesto Ferrero:

Viaggio

Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una scrittura estremamente particolare e distintiva, che si riflette anche nella punteggiatura: il discorso appare sincopato, costellato di punti esclamativi, punti e virgola e frasi molto lunghe. Sebbene con qualche spostamento, l’impatto visivo dei due “testi bianchi” è simile.

Federico García Lorca, Poema doble del lago Eden

Cante

Doppio poema del lago Eden, traduzione a cura di Claudio Rendina ed Elena Clementelli:

Poema

E dopo testi di narrativa in inglese, tedesco e francese vediamo ora un poema tradotto dallo spagnolo: ovviamente il numero di versi è rispettato, ma come potete notare la punteggiatura, anche in queste poche righe, cambia parecchio. Innanzitutto i primi versi appaiono più brevi in italiano. Poi, data la possibilità dello spagnolo di segnalare una frase esclamativa con il punto esclamativo rovesciato all’inizio, nella prima versione non c’è stato bisogno di rimarcare ogni esclamazione, mentre in italiano sì, perché il solo punto esclamativo alla fine non sarebbe bastato per comprendere anche i versi precedenti. Le tre virgole che vedete incolonnate nella seconda strofa indicano la separazione fra un’interiezione e il resto della frase, mentre in spagnolo essa viene inserita nel discorso senza virgole.

 

Insomma, come potete notare, la punteggiatura “parla”. Ho voluto inserire anche i nomi dei traduttori di questi brani perché, sebbene manchino le parole da loro tradotte, anche la punteggiatura può esprimere una scelta personalissima. In linea di massima la punteggiatura dell’originale andrebbe rispettata, ma, come abbiamo visto, in certi casi l’importante è mantenere l’effetto complessivo, la scansione generale del discorso. Sebbene i casi di cui sopra presentassero delle modifiche, mi pare che nessuno di essi abbia completamente stravolto il respiro del testo originale.

Io trovo bellissimi questi riquadri, e ringrazio ancora The Text Is Silence per l’idea. Se qualcuno ha altri brani da proporre, farà la felicità di questa povera fissata. Forse dovrei davvero fondare l’accademia del punto e virgola di cui parlavo tempo fa con alcuni amici altrettanto fissati. O magari mi limiterò a continuare a scavare in mezzo alle parole.

 

 

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Gli Esercizi di stile di Queneau, ovvero come trasformare un incubo traduttivo in un gioco

punto-interrogativoPerché non ho letto prima gli Esercizi di stile? Da ragazzina avevo adorato Zazie nel metrò, e in fondo sapevo che Queneau non mi avrebbe delusa neppure stavolta. Ma ho sempre avuto paura di questo libro così atipico, particolare e da tutti lodato.

A mano a mano che mi gustavo una pagina dopo l’altra, però, riuscivo a pensare solo una cosa: Queneau era un genio. L’idea di prendere un episodio banale come un mezzo litigio sull’autobus e trasformarlo in un caleidoscopio di punti di vista, sensazioni e infinite variazioni non è da tutti. L’avvenimento, descritto all’incirca in mezza paginetta, si mostra in tutte le sue sfaccettature trasformando la lingua in una sostanza viva e plasmabile, dalle possibilità illimitate. Temevo che sarebbe stato noioso leggere la stessa banale storiella per decine di volte consecutive. E invece Queneau è riuscito a stupirmi a ogni pagina, facendomi ridere e sgranare gli occhi, lasciandomi stupefatta, talvolta confusa perché ci mettevo un po’ a trovare la chiave per decifrare l’esercizio che stavo leggendo. Ma una volta scoperta, che piacere meravigliarsi ancora una volta!

Perché parlo degli Esercizi di stile su questo blog? Ma ovviamente perché sono un incubo traduttivo. Non solo giochi di parole, ma figure retoriche a manciate, sintassi ai limiti dell’assurdo, accostamenti lessicali spericolati: la lingua è così strettamente connessa a questo libro che una classica traduzione appare quasi impossibile.

E infatti Umberto Eco, da grande linguista qual è, si è dedicato a riscrivere questi esercizi adattandoli alla nostra meravigliosa lingua, e il risultato è a mio avviso riuscitissimo: in alcuni casi, andando a guardare il francese a fronte, trovavo persino migliore la resa italiana.

Non sapete di cosa sto parlando e siete curiosi? Partiamo dal primo esercizio, “Notazioni”, direttamente in italiano per comodità:

“Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore piú tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in piú al soprabito». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché.”

Eccolo qui l’episodio, in tutta la sua banalità. Ma che fare quando ci troviamo davanti a un esercizio come Distinguo”? Eccone l’inizio, in francese:

“Dans un autobus (qu’il ne faut pas prendre pour un autre obus), je vis (et pas avec une vis) un personnage (qui ne perd son âge) coiffé d’un chapeau (pas d’une peau de chat) cerné d’un fil tressé (et non de tril fessé). Il possédait (et non pot cédait) un long cou (et pas un loup con). Comme la foule se bousculait (non que la boule se fousculât), un nouveau voyageur (et non veau nouillageur) déplaça le susdit (et non suça ledit plat).”

E così via, in un gioco di omofonie impossibile da riprodurre “fedelmente” in italiano. Ma che cos’è la fedeltà? In questo caso, restituire al lettore italiano una serie di acrobazie simili a quelle inventate da Queneau, indipendentemente dalle singole parole utilizzate. Ecco l’inizio della traduzione di Eco di questo brano:

“Un bel dí sul torpedone (non la torre col pedone) scorsi (ma non preteriti) un tipo (non un carattere a stampa) ovvero un giovinotto (che non era un sette da poco cresciuto), munito (sí, ma non scimunito) di un cappello incoronato (non incornato) da un gallone (non di birra), e con un lunghissimo collo (non postale). Costui si mette ad apostrofare (ma non a virgolettare) un passeggero (a cui però non vende almanacchi) e lo accusa (anche se non è un dolore) di pestargli i piedi (non del verso) ad ogni fermata (che non è una ragazza caduta in una retata).”

Meno omofonie, difficili da trovare in una lingua come la nostra, ma dei veri e propri “distinguo” come forse li avrebbe potuti scrivere Queneau se fosse stato italiano.

E che dire del linguaggio da “Paysan” che Eco trasforma in un divertentissimo “Contadino”? (“Uno poi dice la vita, neh… Ero montato sula coriera, no? e vado a sbatere in un balèngo col colo che somiliava ’n polastro e ’n capelino legato con ’na corda, che mi cascasero gli ochi se dico bale […]”).

Com’è abbastanza ovvio, gli “Italianismes” ipotizzati da Queneau (“Oune giorne en pleiné merigge…”) si trasformano per Eco in “Francesismi”: “Allora, un jorno verso mesojorno…”. Si potrebbe pensare che gli anglicismi siano rimasti pressoché invariati, e invece ogni lingua assorbe il lessico e la sintassi altrui in modo diverso: è così che “Un dai vers middai, je tèque le beusse” diventa “Un dèi, verso middèi, ho takato il bus”.

Già da questi pochi esempi si può intuire come la traduzione in questo caso sia un vero e proprio esercizio di stile, al pari di quelli ideati da Queneau. Certamente non un lavoro da principianti, ma comunque una godibilissima riflessione su come sia necessario ponderare sempre quale sia l’aspetto dominante del testo che ci apprestiamo a tradurre.

Non trovate che la traduzione di “Auditif”Coinquant et pétaradant, l’S vint crisser le long du trottoir silencieux” sia nell’italiano “Auditivo” quasi più efficace che in francese? “Dringhete dranghete, sussultando, sbuffando e tossicchiando, ecco l’Esse che stride lungo il bordo sfrigolante del marciapiede…”. Pare proprio di sentirlo! Io la trovo una cosa molto rassicurante: non sempre in traduzione si perde qualcosa, a volte si riesce anche a guadagnare.

Insomma, un libro certamente fuori del comune, spiritoso, divertente ed estremamente interessante per chiunque sia affascinato dalle sfide traduttive.

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Translation Slam a Bookcity Milano

Era un po’ che non partecipavo a un incontro sulla traduzione. Ma quando ho scoperto che nell’ambito di Bookcity Milano si sarebbe svolta una sorta di sfida tra due affermate traduttrici, che si sarebbero confrontate su un brano inedito spiegando e difendendo le proprie scelte, non ho esitato neppure un attimo.

E così, eccomi nella bella cornice della sala del Grechetto, nella biblioteca comunale centrale di Palazzo Sormani in via Sforza 7. Il pubblico è abbastanza numeroso, ma ordinato e attento. Patrocinato da AITI, l’incontro prevede la discussione su un brano inedito di Jamie Ford, l’autore di Il gusto proibito dello zenzero (suvvia, non è colpa dei traduttori se ultimamente i titoli in libreria sono tutti uguali! Io però devo ammettere che, irritata da questa mania, me ne sono tenuta alla larga) e del nuovo Come un fiore ribelle.

Prende la parola Marina Beretta, che introduce e coordina la sfida tra Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli. Oltre all’autore, coadiuvato da un’interprete dell’AITI, è presente anche Alba Mantovani, traduttrice di Come un fiore ribelle.

Si parte con un’introduzione sulle tematiche e sullo stile di Jamie Ford, sul fil rouge che lega i suoi romanzi precedenti, ma che si rivela inapplicabile all’estratto che verrà discusso oggi, tratto dal prossimo libro di Ford. Alba Mantovani parla delle difficoltà che ha incontrato durante la traduzione di Come un fiore ribelle, e poi si parte con la sfida vera e propria. Ovviamente, le due traduttrici avevano lavorato a casa sul brano in questione. Sarebbe stato impensabile e poco utile tradurre “in diretta”.

Bando alle ciance, si comincia con una lettura del brano originale (in inglese) da parte dell’autore stesso, seguita da ciascuna delle due traduzioni letta dalla propria autrice. In questa fase il pubblico segue il testo originale sullo schermo a disposizione.

Siamo partiti con alcune considerazioni generali sulla differenza fra le due interpretazioni del testo: Raffo ha scelto consapevolmente un registro più piano, lineare, perché nonostante l’argomento sia altamente emotivo nel testo le emozioni non traspaiono, quindi ha scelto un linguaggio distaccato e le parole semplici che potrebbe usare una bambina qual era la narratrice all’epoca dei fatti; Scarabelli è rimasta il più possibile aderente al testo originale, facendosene guidare, a partire dal lessico, che fino a un certo punto manteneva una sorta di ambiguità rispetto a quanto stava accadendo e poi si faceva più crudo. Dopodiché è arrivato il momento di un’analisi dettagliata delle due traduzioni, frase per frase.

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La prima scelta che è saltata all’occhio di tutti è stata quella fra passato remoto (Raffo) e passato prossimo (Scarabelli): se Raffo ha scelto il classico tempo della narrazione, che si usa per avvenimenti lontani nel tempo, Scarabelli ha voluto sottolineare il fatto che, sebbene si parlasse dell’infanzia della narratrice, l’evento evidentemente la ossessionava ancora, ed era per lei molto vivido e presente. Le è venuto dunque spontaneo utilizzare il passato prossimo, e alla fine Raffo ha concordato con lei.

Laddove Raffo ha cercato di utilizzare un linguaggio semplice, adatto a una bambina, Scarabelli è rimasta più aderente al testo. Ha sottolineato che ricevere una cartella e mezza decontestualizzata è stata una sfida enorme, perché solitamente ci vogliono 30-40 pagine per “entrare” in un testo e sentire nell’orecchio il ritmo dell’autore.

Un altro esempio di differenza fra le due traduzioni è stato il caso delle onomatopee: se Raffo ha cercato dei verbi italiani che potessero sostituire i suoni corrispondenti, Scarabelli ha preferito mantenere le onomatopee, ma “italianizzandole”, ovvero non copiando pedissequamente com’erano scritte in inglese (sarebbero sicuramente sembrate “strane” all’orecchio del lettore) ma cercando dei suoni verosimili e più adatti a un testo in italiano.

Vi risparmio ulteriori esempi e casi particolari perché senza avere il testo completo sotto gli occhi è piuttosto inutile discuterne, mi limito qui a sottolineare che, indipendentemente dalle singole scelte che potevano essere più o meno azzeccate a seconda dei casi e del gusto personale, entrambe le traduzioni avevano un loro ritmo interno e coerente, a dimostrazione che non esiste la traduzione perfetta, esiste solo un’infinita combinazione di possibilità che devono risultare armoniche al loro interno.

Ovviamente la sfida non era tesa a capire chi fosse la traduttrice migliore tra Raffo e Scarabelli, entrambe professioniste di alto livello: è stata, credo, un’esperienza arricchente per entrambe e soprattutto per il pubblico. Jamie Ford, inoltre, era entusiasta e continuava a fotografare lo schermo con il confronto fra le due traduzioni, oltre al pubblico e a se stesso con la sua interprete. Una bella iniziativa di AITI all’interno di una manifestazione davvero ben organizzata.

 

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L’invisibilità del traduttore

signinvisibilityQuando si parla di “invisibilità del traduttore” ci si può riferire a molti concetti diversi.

Prima di tutto, è impossibile non citare il libro di Lawrence Venuti intitolato, appunto, “The Translator’s Invisibility” (pubblicato in Italia da Armando Editore, 1999, traduzione di M. Guglielmi). Nel testo, Venuti cita il traduttore americano Norman Shapiro, secondo il quale

“Una buona traduzione è come una lastra di vetro. Si nota che c’è solamente quando ci sono delle imperfezioni: graffi, bolle. L’ideale è che non ce ne siano affatto. Non dovrebbe mai richiamare l’attenzione su di sé.”

Il concetto di invisibilità rimanda dunque a un vetro perfettamente trasparente attraverso il quale il testo risulti “pulito”, perfetto, come se fosse stato scritto direttamente in quella lingua, scorrevole e senza alcun intoppo. Certo, non è esattamente una missione facile, ma bisogna sempre avere un ideale a cui tendere.

Purtroppo, questo concetto di “invisibilità” è stato esteso al traduttore come lavoratore. Sempre più spesso capita di ricevere proposte indecenti, di pochi spiccioli a cartella, che alcuni accettano perché “fa curriculum”. Ne avevo già parlato nell’articolo sulle proposte da non accettare mai. La situazione dei traduttori editoriali in Italia è piuttosto drammatica: sono ben pochi quelli che riescono a vivere di questa professione, e molto spesso le tariffe non sono degne di un lavoro così lungo e impegnativo: basta dare un’occhiata all’inchiesta sulle tariffe indetta da Biblit per rendersi conto del malcontento generale. Per i traduttori alle prime armi (o comunque per qualsiasi dubbio, che può venire anche ai più esperti) è bene fare riferimento al sito di STradE, che dispensa davvero tanti consigli utili per evitare soprusi e sfruttamenti.

Il concetto di invisibilità è stato ripreso anche da Ilide Carmignani per dare un titolo agli incontri sulla traduzione letteraria che ogni anno si svolgono al Salone internazionale del libro di Torino: ho già parlato in questo post degli interessantissimi seminari organizzati quest’anno da L’Autore Invisibile. Eh già, perché giovedì 16 maggio inizia il Salone! Ovviamente è un appuntamento importantissimo, se potete non mancate: le tavole rotonde e l’opportunità di parlare con gli editori (almeno quelli delle case editrici più piccole, di certo non troverete “il signor Feltrinelli” allo stand) sono davvero imperdibili.

Sul versante opposto dell’invisibilità del traduttore, avete letto la storia dei traduttori di Dan Brown rinchiusi in un bunker? Perquisiti all’entrata e all’uscita, sorvegliati da guardie armate, isolati dal mondo e con accesso limitato a Internet: più che un collettivo di traduttori ricorda una squadra costretta ai lavori forzati (con tanto di servizio a tutta pagina su TV Sorrisi e Canzoni, però: che fortunelli!). Non so che dire, spero almeno che li abbiano pagati molto bene, anche se non vedo comunque il motivo di un sequestro del genere, a parte gli ovvi fini pubblicitari: che fine ha fatto la fiducia nell’onestà professionale? Era proprio necessario “rapire” i traduttori e impedire loro persino di dire ai parenti dove si trovassero e per quale motivo? Certo, sicuramente il libro venderà moltissimo (a 25€ a copia poi, i guadagni saranno immensi…), ma a parte non essere un’amante del genere non riesco proprio a evitare che questa storia mi lasci l’amaro in bocca. E non certo per l’invidia!

Mi fanno giustamente notare che non ho citato i nomi dei traduttori di Inferno: per completezza dovrei citare tutti quelli che hanno vissuto l’esperienza nel bunker, ma qui mi limito a nominare Nicoletta Lamberti, Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli, le traduttrici italiane. Gli altri nomi li trovate in questa intervista. Mi assicurano inoltre che le condizioni di lavoro erano professionalmente oneste e non ho alcun motivo di dubitarne. La mia perplessità riguarda soltanto la scelta degli editori, non certo quella dei traduttori, che sono professionisti e il cui lavoro ovviamente ha tutto il mio rispetto.

Come abbiamo visto, la parola “invisibilità” può avere tante sfaccettature per un traduttore: mettersi al servizio del testo senza che la nostra personalità lo influenzi, diventare un vero e proprio “autore invisibile”, ma anche dover combattere ogni giorno per i propri diritti e scoprire che pochissimi, quando leggono un libro tradotto, si rendono conto che le parole che hanno davanti agli occhi sono state accuratamente scelte da un traduttore, pur in accordo con quelle dell’autore.

Insomma, in un certo senso l’invisibilità sarà pure una condizione auspicabile per un traduttore, ma per altri versi è assolutamente necessario uscire dall’ombra e far sentire la nostra voce.

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La fedeltà

Girl-Hugging-Words1È ormai famoso il detto traduttore traditore, che fonda su una semplice paronomasia tutta una serie di implicazioni negative. In realtà a volte “tradire” (e ora vedremo che cosa significa in campo traduttivo) è necessario, altre volte invece è questione di disattenzione o scarsa dimestichezza con una lingua.

In teoria, il traduttore di un testo è colui che dovrebbe restituirlo così come l’ha trovato, in modo fedele, ma semplicemente in un’altra lingua. Semplicemente. Facile, no?

No. A volte un traduttore si trova costretto a tradire proprio per poter essere il più fedele possibile. Per spiegare quanto detto bisogna innanzitutto stabilire che cosa significhi il concetto di fedeltà: innanzitutto, fedeltà a che cosa? Alla lettera? Al senso? Alle intenzioni dell’autore, che spesso è difficile comprendere fino in fondo? Riflettendoci bene, appare evidente come queste tre possibilità siano diverse e in alcuni casi quasi opposte. Nemmeno la risposta è univoca e, come spesso accade, va negoziata caso per caso.

Se stiamo traducendo un libro il cui proposito è intrattenere e divertire, privilegeremo la scorrevolezza. Per esempio, le parole inglesi sono molto più corte di quelle italiane, e nella nostra lingua la sovrabbondanza di aggettivi si nota molto di più. Se stiamo traducendo un Harmony, qualche aggettivo di troppo si può anche sfrondare, per non far perdere il filo della narrazione. Se invece si tratta di un autore che fa dello stile il suo cavallo di battaglia, dovremo fare molta più attenzione alle nostre scelte e badare in particolar modo alla forma invece di veicolare semplicemente i contenuti. Attenzione, non sto dicendo che nel primo caso possiamo tradurre alla meno peggio, né che un Harmony abbia meno dignità di un saggio filosofico in cui trovare la parola più precisa è fondamentale. Anche la scorrevolezza è molto difficile da ottenere: richiede impegno e un ottimo orecchio.

Certo, la differenza fra un testo e l’altro non è sempre così evidente e marcata, molti autori cercano di essere coinvolgenti pur senza trascurare una certa raffinatezza stilistica. Bisogna fare molta attenzione a non tradire le loro intenzioni. Per farlo, ovviamente, dobbiamo averle capite. Facciamo un esempio estremo: se un autore sceglie di scrivere un romanzo senza mai usare la lettera “e”, qualsiasi sia il motivo, dobbiamo accorgercene e rispettare la sua volontà, anche se questo ci costringe a fare voli pindarici e a non tradurre proprio tutto alla lettera.

Ma anche senza andare troppo in là, essere fedeli può voler dire semplicemente scegliere, quando possibile, il termine più vicino a quello usato dall’autore, senza voler impreziosire a tutti i costi un testo che magari ci sembra mediocre: ricordiamo sempre che il romanzo non è nostro. Va da sé che si deve evitare anche il rischio opposto, quello di impoverire il lessico o la sintassi per pigrizia o perché non siamo riusciti a trovare niente di meglio.

A questo proposito, qualsiasi traduttore sa che purtroppo a volte, a malincuore, bisogna rinunciare a qualcosa. Riferimenti culturali specifici, modi di dire, giochi di parole: spesso è impossibile trovare un’equivalenza nella nostra lingua, e bisogna arrangiarsi con una traduzione didascalica che spieghi in pochissime parole di cosa si sta parlando, oppure arrendersi alla famigerata nota a pie’ di pagina, terrore di quasi tutti gli editori. Queste soluzioni, però, soprattutto se vi ricorriamo spesso, appesantiscono molto il testo.

È molto noto il concetto delle traduzioni belle e infedeli, contrapposto, di conseguenza, a un concetto di fedeltà come ostacolo alla bellezza. È vero che non si può sempre avere tutto, ma la questione è molto più complicata. Nel caso di un romanzo in cui la scorrevolezza è più importante della correttezza filologica, potrebbe essere più fedele una traduzione che vada incontro al lettore senza presentargli una gran quantità di riferimenti a lui incomprensibili. In altri casi, però, è importante mantenere tali riferimenti e il lavoro del traduttore si trasforma in un vero e proprio veicolo culturale, che arricchisce il lessico e le conoscenze del lettore.

Esempio banale: se in una scena troviamo una persona adulta che mangia una merendina, potrebbe essere importante capire se la marca di quest’ultima richiama per qualche motivo l’infanzia del protagonista (basti pensare ai ricordi nostalgici che le vecchie pubblicità scatenano in molti di noi), e quindi è opportuno mantenerla così com’è o cercarne una equivalente conosciuta sia nel paese d’origine sia nel nostro, oppure se è un dolce qualsiasi e quindi si può anche sorvolare. Non c’è una ricetta precisa né una formula magica per capire com’è meglio agire: bisogna “semplicemente” riuscire a entrare nel testo, a farlo nostro, a comprendere che cosa voleva l’autore, che cosa riteneva importante comunicare e cosa invece è stato inserito senza rifletterci troppo.

Insomma, la fedeltà è un territorio spinoso. Bisogna sempre chiedersi a che cosa vogliamo essere fedeli, qual è lo scopo del testo, a che pubblico è rivolto, e regolarsi di conseguenza.

Credo di avere sbrodolato fin troppo, e forse sono anche andata fuori tema, quindi per stavolta mi fermo qui, ma la fedeltà in traduzione è un concetto affascinante che merita di essere sviluppato in futuro.

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Tradurre i dialoghi

dialoghiQuesto post è apparso in forma ridotta su La Matita Rossa venerdì scorso, per la mia consueta rubrica bisettimanale. Si trattta solo di uno spunto, sicuramente in seguito approfondirò l’argomento perché è molto vasto e merita di essere analizzato più nel dettaglio.

 

Tradurre i dialoghi è sempre una sfida avvincente per un traduttore letterario: è in questi casi che la naturalezza diventa un imperativo. Spesso ciò che diciamo sottintende tutta una serie di concetti che non vengono esplicitati: anche una sola parola può implicare una miriade di connotazioni diverse. Ecco che scegliere quale parola usare diventa fondamentale quanto arduo.

Più che tradurre letteralmente ciò che un personaggio dice, l’ideale sarebbe arrivare a conoscerlo talmente bene da riuscire a entrargli sottopelle per sapere istintivamente quali parole potrebbe pronunciare, e come potrebbe dirle. Tutti abbiamo un nostro personale modo di esprimerci, e in questo senso i protagonisti dei romanzi non sono meno complessi di noi. Un dialogo è diverso da qualsiasi altro brano: anche se si tratta sempre di carta stampata, le parole devono suonare fresche, realistiche, vive. Devono suscitare nel lettore un senso di realtà, in modo che possa facilmente immaginare la scena che si sta svolgendo.

Ovviamente non è possibile stravolgere il significato né il contenuto di una battuta di dialogo, ma l’obiettivo principale dev’essere l’incisività più che la fedeltà alla lettera. A meno che non si tratti di un personaggio che parla in modo volutamente pomposo o elegante, dobbiamo scegliere frasi facili da pronunciare e immaginare la scena come se si stesse svolgendo su un palcoscenico. È vero che spesso, soprattutto quando capita di tradurre libri mediocri, è già il testo originale a suonare poco immediato, ma dobbiamo comunque sforzarci di far parlare i nostri personaggi in modo realistico. Come spesso accade, la lettura ad alta voce può darci una grossa mano quando si tratta di individuare cacofonie o strutture pesanti e poco fluide. Ancora meglio sarebbe far leggere il brano a un’altra persona.

È poi fondamentale prestare attenzione al tipo di personaggio a cui stiamo dando voce: un bambino non parla come un professore, che a sua volta non parla come una casalinga né come un adolescente. Non è soltanto il lessico a essere diverso: cambiano il modo di esprimersi, la lunghezza delle frasi, la sintassi, la punteggiatura, il respiro dell’intero dialogo. Il nostro personaggio è calmo? È alterato? È innamorato? Quanto è colto? Stabilire un registro per ogni personaggio che parla è di grande importanza.


Un altro problema è rappresentato dal turpiloquio: soprattutto traducendo dall’inglese, è facilissimo scivolare in calchi che ormai abbiamo nell’orecchio a causa del doppiaggio dei film americani, ma che tuttavia non suonano spontanei in italiano: imprecazioni come “dannato”, avverbi come “fottutamente” e così via rivelano una pigrizia traduttiva molto dannosa per una lingua vivace e colorita come la nostra. Anche i vari hey man, buddy eccetera non sono facili da rendere: dire “ehi, amico” (o, ancora peggio, “ehi, campione!” a un bambino) per noi non è affatto naturale, checché ne dicano i telefilm. In questi casi è necessario sacrificare l’aderenza al testo e trovare qualche esclamazione più appropriata a seconda del tipo di personaggio. Questo vale ovviamente per tutte le lingue, non solo traducendo dall’ormai abusato inglese.

In sostanza, i dialoghi rappresentano forse il banco di prova più complesso – e più divertente! – della traduzione letteraria. È qui che anche i traduttori più navigati possono scivolare in frasi affettate o poco naturali: ammettiamo che a volte si parla come si mangia e mettiamo da parte il nostro snobismo a beneficio della scorrevolezza, quando ci vuole.

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Montale traduttore

Il post di oggi è ospitato, come ogni due venerdì, dal blog del sito La Matita Rossa, di cui vi ho già parlato.

Lo trovate a questo link: si parla di Eugenio Montale come traduttore di poesia, e per scriverlo mi sono ispirata a un seminario che ho seguito tempo fa. Buona lettura!

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Tradurre pessimi libri

Ammettiamolo, le librerie sono piene di romanzi-spazzatura, dati in pasto al grande pubblico con il preciso intento di risultare scorrevoli e intriganti. Non capita molto spesso di vedersi assegnata la traduzione di un romanzo degno, è più facile ritrovarsi alle prese con un autore che fino a ieri faceva il giornalaio (nulla contro i giornalai, per carità, è solo un esempio) o che cavalca l’onda del successo di un genere in particolare: giallo, erotico, libri maledetti, profumi in cucina e così via.

Come avevo già accennato tempo fa, oggi parleremo di un argomento piuttosto delicato: gli “autori per caso”. Nei loro libri si ritrova spesso uno stile ingenuo e piuttosto povero, tipico di chi non padroneggia l’arte di scrivere. Magari il lettore non se ne accorge neppure e li trova scorrevoli e appassionanti, ma la vera scorrevolezza non è facile da raggiungere né tantomeno da riprodurre, perché solitamente ci si accorge che la presunta fluidità nasconde un fraseggiare impacciato e ridondante. Un traduttore si accorge se un libro è scritto male molto più facilmente di un semplice lettore. Del resto lo diceva già Gesualdo Bufalino nel suo Il malpensante (1987):

“Il traduttore è con evidenza l’unico autentico lettore di un testo. Certo più d’ogni critico, forse più dello stesso autore. Poiché d’un testo il critico è solamente il corteggiatore volante, l’autore il padre e marito, mentre il traduttore è l’amante.”

Non ho certo le competenze né l’arroganza necessarie per mettermi a criticare lo stile di chicchessia, ma traducendo – e leggendo molto – ci si accorge subito se la scrittura di un certo autore è raffazzonata, poco elegante, goffa. Che fare quando ci si trova di fronte a un testo scritto male nella lingua di partenza?

Ovviamente, non sta al traduttore abbellire e migliorare un libro. Che ci piaccia o no, l’autore è un altro, e noi siamo al suo servizio. Non possiamo dunque aggiustare le frasi a nostro piacimento, anche se talvolta un intervento, anche minimo, si rende proprio necessario. A me è capitato di tradurre un autore che non era esattamente un fine cesellatore del linguaggio: il suo periodare era banale, ripetitivo, con immagini poco efficaci buttate lì come grandi colpi di scena (per non parlare di incongruenze e inesattezze). Ho cercato allora di rendere il testo in un italiano corretto, ma ovviamente il risultato finale rispecchiava il testo di partenza, che non era un granché. A quel punto la palla passa alla redazione, che può permettersi interventi un po’ più sostanziali: il traduttore, invece, deve rimanere fedele all’originale. Certo, la tentazione di limare qua e là viene sempre, e certi autori fanno proprio scappare la pazienza. Più volte sono stata lì lì per eliminare l’ennesima frase orribile, ma non sempre ci si può prendere delle libertà così grosse.

Inoltre, un testo scritto male è molto più difficile da affrontare rispetto a uno dallo stile impeccabile: se l’autore sa quel che fa, è facile farsi prendere per mano e seguirlo con cieca fiducia. Invece, se ci troviamo di fronte a un testo zoppicante, dobbiamo stare sempre all’erta, attenti a ogni errore e ripetizione, a ogni frase labirintica o priva di senso. Quanto spesso i personaggi di un libro si alzano dalla sedia due volte nella stessa pagina, senza essersi mai riseduti, e quanto è facile che gli oggetti in scena si spostino senza motivo apparente…

Tradurre un autore mediocre può rivelarsi frustrante, e il timore che la scarsa qualità del testo in italiano sia imputata al traduttore è sempre in agguato, ma un buon editor si renderà conto che vi siete limitati a rispettare l’originale, soprattutto se allegate alla traduzione una breve nota esplicativa. Ogni cambiamento va comunicato alla redazione della casa editrice, anche per segnalare incongruenze ed errori evidenti.

Non possiamo dunque permetterci di migliorare il testo (e chi siamo per farlo?), possiamo però tentare almeno di renderlo in un italiano corretto e fluido – a meno che l’intenzione dell’autore non fosse tutt’altra, ma qui si parla di scrittori che non si rendono conto di scrivere male. Solo in letteratura possiamo sognare di mettere mano, anzi, di manomettere il testo originale: ne è un esempio il meta-romanzo di Brice Matthieussent La vendetta del traduttore, tradotto da Elena Loewenthal.

In sostanza, non c’è un modo univoco di affrontare un testo mediocre: possiamo solo negoziare di caso in caso, di frase in frase, come ogni traduttore è sempre condannato a fare.

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L’influenza del testo originale sulle traduzioni

Partendo dal concetto di interlingua espresso nell’ultimo post, e prendendo spunto dalla trasmissione “La lingua batte”, che sabato scorso ha intervistato Ilide Carmignani, oggi parliamo del famoso traduttese. Ma non solo, perché, come vedremo, esiste anche il tradiano. Ebbene sì, un’incauta traduzione può incorrere in tranelli diversi e diametralmente opposti.

Per traduttese si intende quel linguaggio che si prende troppe libertà traduttive, che fa della scorrevolezza il proprio cavallo di battaglia a tutti i costi, anche a scapito della precisione e del rispetto del testo originale. Ogni scrittore ha un suo stile, a volte ostico, a volte fluido, a volte personalissimo e indefinibile. La traduzione deve rispettare le particolarità della scrittura senza appiattirle né scioglierle per renderle più facili da leggere: la sensazione evocata nel lettore dal testo originale dev’essere – nei limiti del possibile, e con tutte le inevitabili perdite – la stessa che suscita il testo tradotto. Non bisogna servire al lettore la pappa pronta, fornendogli una traduzione senza personalità. Oltretutto questo significherebbe sottovalutare la sua capacità di comprendere e apprezzare le particolarità stilistiche di un determinato autore. A volte le letterature straniere possono apportare impulsi vitali e aprire la mente, impedendo alla lingua di fossilizzarsi e ai libri di diventare solo una sbiadita imitazione dell’originale, da cui viene eliminata ogni traccia di colore.

Al contrario, il tradiano è la tendenza a rimanere troppo aderenti al testo originale, riempiendo la traduzione di calchi semantici e sintattici, dando vita a un italiano meticcio e artificiale. Questo è particolarmente evidente nelle traduzioni dall’inglese (perché occupano un’enorme fetta di mercato, ovvio), soprattutto nei romanzi di intrattenimento e nei best seller, che vengono tradotti e pubblicati alla velocità della luce. Le scadenze imminenti non aiutano certo a prendersi il tempo di cercare una soluzione più naturale in italiano. Un esempio di tradiano, sottolineava Ilide Carmignani durante la trasmissione, sono i vari “fottuto” e “dannazione” che coloriscono sempre più spesso il linguaggio di libri e film tradotti dall’americano, e che ormai fanno parte di una lingua considerata comune e naturale anche in italiano. In effetti, non di rado vengono utilizzati dagli autori contemporanei che scrivono nella nostra lingua ma che si sono formati su romanzi tradotti troppo letteralmente e su film doppiati male.
A proposito di film, vi consiglio un divertente filmato dell’AIDAC sull’influenza del doppiaggio nella lingua quotidiana. Quanti calchi dall’inglese (americano) riuscite a trovare?

Non è difficile arguire che sia il traduttese sia il tradiano hanno potenzialmente conseguenze pesanti sull’uso della lingua da parte degli italiani stessi: in fondo gran parte dei libri che leggiamo e dei film che guardiamo sono tradotti, principalmente dall’inglese. Come difendersi? Lo ripeto ancora una volta: leggendo molta letteratura italiana. Non solo i giovani autori, che sicuramente hanno un peso nella diffusione e nello sviluppo della nostra lingua, ma anche e soprattutto i classici: Manzoni, Alfieri, Boccaccio, Pirandello, Svevo, Calvino… Ce n’è per tutti i gusti.

L’italiano è una lingua meravigliosa che va preservata, senza privarla dell’opportunità di arricchirsi ma senza neppure renderla schiava.

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L’orecchio del traduttore

Tempo fa, una persona che traduce da parecchi anni e che stimo moltissimo mi ha detto che possiedo il famoso “orecchio del traduttore”. L’ho trovato un complimento meraviglioso quanto inaspettato, e ho cominciato a riflettere su che cosa significhi davvero questa espressione così usata (e talvolta abusata).

È un concetto piuttosto difficile da spiegare, e spesso ci si barrica dietro il concetto che uno “o ce l’ha, o non ce l’ha”, fine. Cosa verissima, ma fino a un certo punto. L’orecchio del traduttore è una qualità che non tutti possiedono, ma che come molte abilità va coltivata, curata, mantenuta in vita. Come? Semplice: leggendo. Leggendo non solo voracemente tutto quello che ci capita sottomano, ma anche e soprattutto selezionando cosa leggere. È importante e inevitabile nutrirsi di libri tradotti, ma senza farsi condizionare troppo, per evitare di contribuire a creare una sorta di interlingua che assomiglia all’italiano e alla lingua straniera insieme, che calca lessico e strutture sintattiche, che, insomma, non è il vero italiano.

Leggere letteratura italiana è fondamentale. In particolare, i classici come I promessi sposi (lo so, lo so, li abbiamo letti tutti alle superiori, ma rileggerli con la consapevolezza del linguaggio che abbiamo acquisito crescendo e studiando è un’altra cosa) sono ottimi mezzi per abituare il nostro cervello a pensare e scrivere in un italiano elegante e corretto. Ovviamente ogni libro ha il suo stile, e non si può certo tradurre un autore contemporaneo con la lingua di Manzoni (esserne capaci, poi…), ma è importante avere “nell’orecchio”  un certo tipo di fraseggio. Ovviamente, ciò non implica che la letteratura italiana contemporanea non sia altrettanto valida: bisogna solo saper scegliere bene.  A questo proposito, vi consiglio una raccolta di racconti di Michele Mari, finissimo conoscitore della lingua italiana: si intitola Tu, sanguinosa infanzia e al suo interno troverete anche uno splendido racconto sul valore delle traduzioni, oltre a uno sull’importanza degli autori che si leggono da bambini.

Ma torniamo all’orecchio del traduttore. Ora che sapete come esercitarlo, provate a scrivere, ogni tanto, invece di tradurre: vi accorgerete se le frasi vi vengono fuori facilmente, se la sintassi è pesante o scorrevole, se il lessico è banale o ricercato. Ovviamente lo scopo della traduzione non è sostituirsi all’autore. Tuttavia, esercitarsi un po’ con la scrittura, e accorgersi di quanto è difficile essere chiari senza scadere nell’ovvio, può fare solo bene. Meglio ancora, fate leggere a qualcuno i vostri scritti, chiedendogli di vestire i panni di un critico spietato. Tra parentesi, questo vale anche per le traduzioni: una frase che sembra chiarissima a noi che l’abbiamo riletta mille volte potrebbe risultare oscura a chi la vede per la prima volta. Anche leggere i testi a voce alta è utilissimo: spesso se ci si inceppa nella lettura vuol dire che qualcosa in quella frase non funziona. La lettura deve risultare fluida, scorrevole, e il lettore non deve mai fermarsi stupito da una scelta linguistica. Quante volte, leggendo libri tradotti, ci è capitato di fare un salto sulla sedia trovandoci di fronte a una parola stonata? A volte è “colpa” del testo originale, ovvio (bisognerebbe poi capire se tale effetto è voluto, ma degli autori mediocri parleremo in uno dei prossimi post).

È difficile spiegare perché certe costruzioni suonino meglio di altre, ed è qui che entra in gioco la sensibilità del famoso orecchio. Una buona traduzione somiglia a una melodia in cui non si trovino dissonanze e salti improvvisi. Certe parole sono oggettivamente cadute in disuso, oppure risultano poco armoniche in una determinata frase: alleniamoci a riconoscerle e a sceglierne di più appropriate.

Credo non ci sia bisogno di aggiungere che se non ci si abitua fin da piccoli a giocare con le parole e a studiare la struttura delle frasi, serve a ben poco leggere di tutto in età adulta, perché sarà una lettura superficiale e poco consapevole, oppure difficoltosa.

L’orecchio del traduttore, in fondo, non è altro che un amore cronico, inesauribile e particolarmente sviluppato nei confronti della propria lingua. E questo amore comporta una sensibilità coltivata con cura e protetta dagli abusi, oltre che un contatto quotidiano, appassionato e viscerale con le parole e la sintassi.

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