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Lost in translation, ovvero: la storia di una proposta editoriale

indexPerdonate il titolo banale e forse fuorviante: in questo post non parlerò di tutto ciò che va perduto durante l’atto traduttivo. Vi spiegherò invece perché non scrivo da novembre, subito dopo aver festeggiato il compleanno del blog.

Beh, in realtà la risposta è molto breve: negli ultimi sei (otto) mesi non ho avuto tempo di dedicarmici. Perché mi sono trasferita a 130 km di distanza con tutto quello che comporta insegnare a Torino un giorno alla settimana e vivere vicino a Pavia il resto del tempo, ma anche – e per fortuna – perché ho avuto molto da tradurre.

Fra i libri su cui ho lavorato in questo periodo, vorrei dedicare un’attenzione particolare a Écue-Yamba-Ó di Alejo Carpentier, e vi spiego subito il perché: questo romanzo ha una storia piuttosto travagliata. Carpentier è l’autore su cui ho fatto la mia tesi magistrale, confrontando le diverse traduzioni esistenti di alcuni dei suoi romanzi. Le prime erano piuttosto vecchiotte, le ritraduzioni, invece, erano a cura di Angelo Morino, il mio professore universitario (e immenso traduttore) scomparso prematuramente nel 2007. Proprio Morino aveva iniziato tempo addietro, insieme alla mia relatrice di laurea Vittoria Martinetto, a tradurre le prime pagine di Écue-Yamba-Ó, primo romanzo di Carpentier.

Questo libro dal titolo così strano non ha visto la luce fino a pochi giorni fa. Con la scomparsa di Morino, il progetto era stato accantonato finché Vittoria non mi ha proposto di tradurlo insieme, per poi cercare un editore che volesse pubblicarlo. L’abbiamo quindi tradotto all’incirca nel 2010, e ci siamo messe alla ricerca di una casa editrice interessata. Einaudi e Sellerio, che avevano pubblicato gli altri romanzi di Carpentier, l’hanno rifiutato perché “poco commerciale”, pur elogiandolo molto (conservo ancora la dettagliata risposta dell’editor di Einaudi che l’ha valutato in termini decisamente positivi. Cito testualmente, sapendo di non fargli un torto: “anche in questo romanzo giovanile Carpentier è già un gigante della scrittura”).

A un certo punto siamo riuscite ad accordarci con una piccolissima casa editrice fiorentina che era molto interessata al libro, ma la Fundación Carpentier di Cuba, che detiene i diritti dell’opera (aspiranti traduttori, ricordate: prima di fare una proposta editoriale informatevi sempre riguardo ai diritti!), non l’ha ritenuta abbastanza prestigiosa per pubblicare un autore come Carpentier.

Insomma, da un lato i “grandi” non lo volevano perché “fuori moda”, dall’altra i piccoli editori venivano scartati perché forse non in grado di pubblicizzarlo al meglio… E così per anni l’abbiamo lasciato nel cassetto, un po’ deluse.

Quando però Lindau, con cui collaboro da diverso tempo, ha inaugurato la collana di narrativa Senza Frontiere, Carpentier mi è sembrato una scelta perfetta e naturale. Il direttore editoriale per fortuna la pensava come me, la Fundación stavolta ha accettato, e così io e Vittoria abbiamo ripreso in mano la traduzione terminata quasi cinque anni prima. Un lavoro gomito a gomito che come al solito mi ha arricchita moltissimo, complicato ma affascinante: ore e ore passate a rivedere, limare, aggiustare, cambiare per poi tornare sui nostri passi, cercare improbabili riferimenti online, decifrare e confrontare.

Il risultato è uscito pochi giorni fa, dopo un’attenta revisione da parte di Paola Quarantelli di Lindau e di Vincenzo Perna, esperto di musica afrocubana (perché sì, nel libro c’è tanta musica, tanto ritmo non solo linguistico), e come potete immaginare ne siamo oltremodo felici. Speriamo che a Carpentier venga finalmente tributato il giusto merito anche per questo romanzo giovanile ma già ricco di fascino.

Morale della favola: non scoraggiatevi mai, una proposta di traduzione rifiutata per anni un giorno potrebbe trovare la sua perfetta collocazione, quella che stava aspettando fin dall’inizio.

Un’ultima cosa: a settembre partirà la nuova edizione del corso online Tradurre per l’editoria. Siccome sono una delle tutor, posso dire di essere molto soddisfatta di come sono andate le edizioni precedenti, e a giudicare dai commenti degli iscritti, che trovate sul sito (e non li abbiamo inseriti noi, giuro!), lo è anche chi vi ha partecipato. Vi invito a consultare il programma se siete alla ricerca di un corso “pratico” ma non potete spostarvi da casa. Questo corso è un altro dei motivi per cui non ho avuto il tempo di aggiornare il blog: è impegnativo e arricchente anche per me.

Spero di riuscire ad aggiornare presto il blog, anche se mi aspetta un’estate di fuoco e niente vacanze. Guardiamo il lato positivo, però: diventare traduttori è possibile, se si ha abbastanza tenacia.

 

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Tradurre “I Remember” di Joe Brainard

Ammetto che quando mi è stato proposto di tradurre “I Remember” non sapevo chi fosse Joe Brainard, e non avevo nemmeno letto “Je me souviens” di Perec, ispirato proprio da Brainard. Ho ricevuto il testo e sfogliandolo mi sono resa conto di quanto fosse particolare: frasi brevissime, mai più lunghe di dieci righe, in molti casi una o due righe soltanto, e tutte cominciavano con le stesse parole: “Mi ricordo”. A volte basta citare un oggetto, una marca, una canzone, e subito tornano in mente un mondo e un’epoca ormai lontani. Il libro di Joe Brainard funziona proprio così: un’idea apparentemente semplice, ma in realtà carica di potenzialità che qui vengono sfruttate appieno. Come scrive il suo amico Ron Padgett: “ci rendemmo tutti conto che aveva fatto una scoperta meravigliosa, e molti si chiedevano come mai un’idea così ovvia non fosse venuta in mente a loro”.

Ma non si tratta di un semplice elenco di prodotti e personaggi: Brainard entra in prima persona nel suo libro, espone tutta la propria vulnerabilità di artista, di omosessuale, di bambino e poi ragazzo, di studente, di uomo. E così facendo, come scrive Paul Auster nella prefazione, riesce “a trascendere ciò che è puramente privato e personale in un’opera che parla di tutti. È proprio questa la sensazione: parlando di sé, Brainard riesce a coinvolgere il lettore con una spontaneità e un candore davvero eccezionali, facendolo entrare nella propria storia personale e contemporaneamente stimolando i ricordi del lettore stesso.

Per un libro così atipico, la casa editrice voleva un revisore di tutto rispetto. Io ho avuto la fortuna di averne addirittura due, dopo aver buttato giù la prima bozza di traduzione. In un primo momento ho lavorato con Paola Quarantelli, editor di Lindau, e in seguito anche con Susanna Basso, che credo non abbia bisogno di presentazioni. Ecco come abbiamo impostato il lavoro.

Dopo aver tradotto – un po’ di getto, ma facendo le dovute ricerche e cercando di “entrare” già nel testo – le prime cinquanta pagine, ci siamo incontrate tutte e tre in casa editrice per discutere la strategia da seguire avendo già qualcosa in mano. Ebbene, il mio timore reverenziale nei confronti di un testo così importante mi aveva portata a rimanere troppo aderente all’originale, nel tentativo di conservare il più possibile. Ma quello di Brainard è un libro fresco, immediato, evocativo, ed era quindi necessario staccarsi un po’ dal testo di partenza per restituire lo stesso effetto in italiano. Ovviamente questo non poteva avvenire nella prima bozza di traduzione, che deve necessariamente restare vicina al testo di partenza per evitare che i rimaneggiamenti successivi la facciano allontanare davvero troppo dall’originale.

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Tenendo a mente i consigli ricevuti, ho quindi terminato la traduzione e siamo passate alla seconda fase: Paola ha letto e revisionato tutto il libro, e a mano a mano che andavamo avanti ci incontravamo in casa editrice (la sera, dopo il suo orario di lavoro) per limare ogni singola frase. I suoi suggerimenti sono stati davvero preziosi, e mi hanno aiutata a mettermi nei panni di un lettore italiano staccandomi un po’ – anche se a malincuore – dall’inglese.

A metà lavoro, abbiamo inviato la prima tranche a Susanna Basso. Anche in questo caso le sue annotazioni sono state indispensabili: in molti casi, la sua sensibilità linguistica ha arricchito il testo di una immediatezza di cui Brainard, credo, sarebbe stato orgoglioso. Ricevere i suoi consigli, di persona o al telefono, mi ha resa molto più consapevole e attenta: un bell’allenamento per il famoso “orecchio del traduttore”! Il confronto e la possibilità di dialogare sono un’occasione rara e meravigliosa per chiunque faccia questo mestiere.

Abbiamo proceduto nello stesso modo anche per la seconda metà del libro: lunghissime serate passate in casa editrice con Paola – con la quale per fortuna ho trovato un’ottima intesa – a cercare soluzioni, a snellire le frasi, a riflettere e spesso, molto spesso, a ridere parecchio.

Sì, perché “Mi ricordo” è un libro tenero, commovente, ma anche spassoso e arguto, ricco di esperienze più o meno imbarazzanti, di fantasie, di riflessioni e pensieri che prima o poi sono venuti in mente a chiunque. Brainard si mette in gioco senza vanità, e senza risparmiarci davvero nulla: insomma, se vi scandalizzate facilmente state alla larga da questo libro. Ma, tornando alla traduzione, quali sono state le principali difficoltà?

Innanzitutto, sono state necessarie davvero moltissime ricerche. Io non ho vissuto in America negli anni ’40, ’50 e ’60, e di conseguenza ho dovuto colmare questa lacuna informandomi su un’infinità di siti diversi per cogliere tutti i riferimenti. A volte era molto facile capire di che cosa stesse parlando, altre volte le frasi, nella loro brevità e assenza di contesto, rimanevano oscure e mi facevano dannare. Qualche esempio? “I remember box suits.” “I remember «Lavender past» (He has a…)”. Come ogni traduttore sa, senza contesto a volte è davvero molto difficile stabilire di cosa si parli, ma con molta pazienza e unendo tre teste ne siamo venute a capo.

In altri casi era chiaro a che cosa Brainard si riferisse, ma era difficile rendere lo stesso concetto in italiano perché il lettore non avrebbe riconosciuto certi riferimenti immediatamente comprensibili per un americano. A volte abbiamo optato per una breve traduzione didascalica: per esempio, “I remember Bickford’s” è diventato “Mi ricordo i ristoranti Bickford’s”. Altre volte, per evitare lunghe e in fondo inutili spiegazioni, qualcosa è andato perso, e “car coat” è diventato un semplice giaccone. Per quanto riguarda gli abiti, le acconciature e i personaggi dell’epoca nella maggior parte dei casi è stata sufficiente una ricerca accurata, anche se non sempre, dopo aver capito, era semplice trasporli in modo comprensibile per un lettore italiano.

Numerosi erano anche i giochi di parole: incubo di qualsiasi traduttore, quando sono decontestualizzati e assumono tutta l’importanza di una frase singola, isolata, non è possibile tralasciarli o prendere decisioni arbitrarie. Ve ne lascio alcuni giusto per divertirvi a pensarci sopra, e per quanto riguarda le soluzioni che abbiamo adottato… Le troverete nel libro!

I remember «Your shirt tail’s on fire!» and then you yank it out and say «Now it’s out!»”. Ovviamente qui si gioca sul “fire” che può essere “out” come la camicia può essere “out” dai pantaloni… Impossibile a mio parere trovare una soluzione abbastanza fedele, quindi abbiamo optato per un altro scherzo.

I remember a joke about Tom, Dick and Harry that ended up, «Tom’s dick is hairy»”. Qui il gioco di parole “sporco” è evidente, e in questo caso dopo mille riflessioni e dopo aver stressato un po’ chiunque mi è venuto in soccorso un amico, che mi ha suggerito una soluzione a mio avviso davvero perfetta.

I remember «dress up time». (Running around pulling up girls’ dresses yelling «dress up time»).” Qui l’ambiguità di “dress up” era unita alla difficoltà di trovare un’espressione verosimile, che dei bambini potessero davvero urlare rapidamente correndo qua e là per alzare il vestitino alle femmine.

Avete qualche idea per questi giochi di parole? Sono sicura che esistano tantissime soluzioni diverse, anche se sono piuttosto soddisfatta di quelle adottate nel libro.

Tralasciando questi casi particolari, anche le frasi apparentemente più semplici nascondevano delle insidie: Brainard era un artista, e anche sulla carta gli bastava un accenno di pennellata per evocare tutto un insieme di pensieri, emozioni e sensazioni: un aggettivo, l’ordine delle parole, una parentesi potevano dare a una frase brevissima una forza evocativa incredibile e adatta a essere resa solo in una lingua come l’inglese, in cui la sintesi la fa da padrona. In italiano, per ottenere la stessa immediatezza, è stato a volte necessario perdere qualche sfumatura, guadagnando però in ritmo e spontaneità. Inoltre, qualsiasi traduttore sa bene quanto sia complicato scrivere in modo scorrevole, e quanto lavoro di cesello ci sia dietro una frase apparentemente banale.

A traduzione ultimata, ci siamo trovate un’ultima volta tutte e tre in casa editrice, dove abbiamo discusso anche della prefazione di Paul Auster, che ha adorato questo libro. E sentirmi dire che avevo fatto un ottimo lavoro è stata una delle soddisfazioni più grandi della mia carriera, anche se il merito va certamente condiviso.

Tradurre Joe Brainard è stata un’esperienza intensa, diversa, eccezionale. Sono grata a Paola e alla Lindau per avermi dato questa possibilità. E lavorare con Susanna Basso è stato un sogno che si è avverato. Fatemi sapere come avreste risolto i giochi di parole di cui sopra, e se lo leggerete spero che il libro vi piaccia quanto a me è piaciuto tradurlo.

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Scheda del libro sul sito Lindau
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Translation Slam a Bookcity Milano

Era un po’ che non partecipavo a un incontro sulla traduzione. Ma quando ho scoperto che nell’ambito di Bookcity Milano si sarebbe svolta una sorta di sfida tra due affermate traduttrici, che si sarebbero confrontate su un brano inedito spiegando e difendendo le proprie scelte, non ho esitato neppure un attimo.

E così, eccomi nella bella cornice della sala del Grechetto, nella biblioteca comunale centrale di Palazzo Sormani in via Sforza 7. Il pubblico è abbastanza numeroso, ma ordinato e attento. Patrocinato da AITI, l’incontro prevede la discussione su un brano inedito di Jamie Ford, l’autore di Il gusto proibito dello zenzero (suvvia, non è colpa dei traduttori se ultimamente i titoli in libreria sono tutti uguali! Io però devo ammettere che, irritata da questa mania, me ne sono tenuta alla larga) e del nuovo Come un fiore ribelle.

Prende la parola Marina Beretta, che introduce e coordina la sfida tra Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli. Oltre all’autore, coadiuvato da un’interprete dell’AITI, è presente anche Alba Mantovani, traduttrice di Come un fiore ribelle.

Si parte con un’introduzione sulle tematiche e sullo stile di Jamie Ford, sul fil rouge che lega i suoi romanzi precedenti, ma che si rivela inapplicabile all’estratto che verrà discusso oggi, tratto dal prossimo libro di Ford. Alba Mantovani parla delle difficoltà che ha incontrato durante la traduzione di Come un fiore ribelle, e poi si parte con la sfida vera e propria. Ovviamente, le due traduttrici avevano lavorato a casa sul brano in questione. Sarebbe stato impensabile e poco utile tradurre “in diretta”.

Bando alle ciance, si comincia con una lettura del brano originale (in inglese) da parte dell’autore stesso, seguita da ciascuna delle due traduzioni letta dalla propria autrice. In questa fase il pubblico segue il testo originale sullo schermo a disposizione.

Siamo partiti con alcune considerazioni generali sulla differenza fra le due interpretazioni del testo: Raffo ha scelto consapevolmente un registro più piano, lineare, perché nonostante l’argomento sia altamente emotivo nel testo le emozioni non traspaiono, quindi ha scelto un linguaggio distaccato e le parole semplici che potrebbe usare una bambina qual era la narratrice all’epoca dei fatti; Scarabelli è rimasta il più possibile aderente al testo originale, facendosene guidare, a partire dal lessico, che fino a un certo punto manteneva una sorta di ambiguità rispetto a quanto stava accadendo e poi si faceva più crudo. Dopodiché è arrivato il momento di un’analisi dettagliata delle due traduzioni, frase per frase.

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La prima scelta che è saltata all’occhio di tutti è stata quella fra passato remoto (Raffo) e passato prossimo (Scarabelli): se Raffo ha scelto il classico tempo della narrazione, che si usa per avvenimenti lontani nel tempo, Scarabelli ha voluto sottolineare il fatto che, sebbene si parlasse dell’infanzia della narratrice, l’evento evidentemente la ossessionava ancora, ed era per lei molto vivido e presente. Le è venuto dunque spontaneo utilizzare il passato prossimo, e alla fine Raffo ha concordato con lei.

Laddove Raffo ha cercato di utilizzare un linguaggio semplice, adatto a una bambina, Scarabelli è rimasta più aderente al testo. Ha sottolineato che ricevere una cartella e mezza decontestualizzata è stata una sfida enorme, perché solitamente ci vogliono 30-40 pagine per “entrare” in un testo e sentire nell’orecchio il ritmo dell’autore.

Un altro esempio di differenza fra le due traduzioni è stato il caso delle onomatopee: se Raffo ha cercato dei verbi italiani che potessero sostituire i suoni corrispondenti, Scarabelli ha preferito mantenere le onomatopee, ma “italianizzandole”, ovvero non copiando pedissequamente com’erano scritte in inglese (sarebbero sicuramente sembrate “strane” all’orecchio del lettore) ma cercando dei suoni verosimili e più adatti a un testo in italiano.

Vi risparmio ulteriori esempi e casi particolari perché senza avere il testo completo sotto gli occhi è piuttosto inutile discuterne, mi limito qui a sottolineare che, indipendentemente dalle singole scelte che potevano essere più o meno azzeccate a seconda dei casi e del gusto personale, entrambe le traduzioni avevano un loro ritmo interno e coerente, a dimostrazione che non esiste la traduzione perfetta, esiste solo un’infinita combinazione di possibilità che devono risultare armoniche al loro interno.

Ovviamente la sfida non era tesa a capire chi fosse la traduttrice migliore tra Raffo e Scarabelli, entrambe professioniste di alto livello: è stata, credo, un’esperienza arricchente per entrambe e soprattutto per il pubblico. Jamie Ford, inoltre, era entusiasta e continuava a fotografare lo schermo con il confronto fra le due traduzioni, oltre al pubblico e a se stesso con la sua interprete. Una bella iniziativa di AITI all’interno di una manifestazione davvero ben organizzata.

 

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Workshop di editing (minimum fax, Roma 14-16 dicembre 2012)

Come vi avevo anticipato, questo fine settimana ho partecipato al workshop di editing organzzato dalla casa editrice minimum fax.
Questo blog parla prevalentemente di traduzione letteraria, ma di solito chi aspira a diventare traduttore è interessato a tutti gli aspetti del mondo editoriale, quindi un resoconto di questo workshop potrebbe essere interessante per qualcuno.

Com’è stato, dunque? Il primo aggettivo che mi viene in mente: stimolante. Il coordinatore era Christian Raimo, scrittore, editor, insegnante e chi più ne ha più ne metta. Ho sempre invidiato chi riesce a spaziare e ad allargare i propri orizzonti, e pare che lui ci riesca in pieno. Anzi, è stato proprio questo il suo primo consiglio: leggere di tutto, voracemente, senza limiti autoimposti. Leggere soprattutto testi che non incontrano i nostri gusti o i nostri interessi, o che non fanno parte dell’ambito in cui lavoriamo, per riuscire a crearci un bagaglio culturale il più ampio possibile. Qualche esempio? La poesia può aiutare a comprendere meglio i vari livelli di sperimentazione linguistica, il teatro è utilissimo per il ritmo dei dialoghi, e così via. Che poi è lo stesso consiglio che viene dato durante i corsi di traduzione, non so se mi spiego…

Il workshop era articolato in tre giorni: nel primo incontro abbiamo discusso i compiti e le responsabilità di un editor, partendo da esempi di modelli ideali, che si sono rivelati talenti poliedrici e letterariamente bulimici: come accennato sopra, per poter essere un buon editor (o un buon traduttore) è necessario aver metabolizzato una gran quantità di testi diversi, essere curiosi e aperti, pronti al confronto e all’associazione di idee. Christian ci ha inoltre fornito una serie di spunti riguardo a riviste e siti su cui trovare pareri autorevoli su quel che vale la pena leggere, per tenersi informati sulle novità in campo editoriale. C’è tutto un mondo semisconosciuto in fermento, e vale davvero la pena di approfondire. L’editoria è cambiata completamente nell’ultimo secolo, e ancor di più negli ultimi anni: stare al passo con le nuove iniziative è difficile quanto appassionante.

Ma veniamo all’editing in sé: un editor si occupa sia della selezione sia della cura dei testi. Christian ha fatto un paragone che trovo davvero azzeccatissimo: occuparsi di editing è come sostenere un colloquio con i genitori di un nostro alunno. Essendo anch’io – seppur da poco – un’insegnante, ho capito perfettamente cosa intendesse dire (anche perché l’ha spiegato bene, lo ammetto). L’editor è come un insegnante che si trova a discutere con il genitore di un ragazzo, e quest’ultimo non appartiene a nessuno dei due, ma solo a se stesso e al proprio destino. È nell’interesse di tutti trovare un indirizzo adeguato per il ragazzo, dargli la possibilità di crescere, di dare il meglio di sé, di distinguersi nel mondo. Allo stesso modo, l’autore consegna all’editor un testo che andrà valorizzato con la collaborazione di tutti, senza snaturarlo né dargliela vinta per pigrizia. È compito dell’editor dare indicazioni all’autore affinché il testo migliori. Fare editing è dunque un po’ come educare un testo. E va bene, Christian ce l’ha spiegato meglio, ma il concetto è questo.

La seconda parte del workshop prevedeva che lavorassimo sul testo di un autore italiano, Francesco Longo. Ci è stato consegnato un suo vecchio racconto mai pubblicato e mai revisionato, e per tutta la giornata di sabato abbiamo discusso su come migliorare il testo, su come dare forza ai personaggi, come rendere più realistici certi atteggiamenti e certe situazioni, insomma, come rendere il racconto pubblicabile. Il giorno successivo, Francesco si è prestato al massacro venendo ad ascoltare i nostri commenti. È stato molto utile per noi ma – credo – anche per lui, dato che gli abbiamo fatto notare quali immagini non erano chiare, quali incongruenze avevamo riscontrato e così via. Mettere insieme quindici cervelli non è facile, perché ognuno si crea la propria visione dei personaggi e della storia, ed è molto raro che combaci con quella degli altri. Da qui l’immagine che accompagna il post: a un certo punto ognuno si convince della propria verità e cerca di renderla evidente (per non dire sbatterla in faccia, eravamo quasi tutte donne e non siamo state così violente) agli altri, magari scaldando anche un po’ gli animi, ma non temete: è divertente!

Insomma, sono rimasta davvero soddisfatta da questi tre giorni romani pieni di dialogo, di conversazioni letterarie, di consigli, di speranze e passioni condivise. Se ne avete l’occasione, fateci un pensierino per la prossima volta.

Una piccola postilla:
Da traduttrice, ho sempre visto l’editing come poco più di una correzione di bozze: si può cambiare qualche aggettivo, l’ordine delle parole; anche riscrivere una frase, ma mai cambiarne la sostanza. E in effetti quando si tratta di testi tradotti, quindi già pubblicati in un’altra lingua, il rispetto per le scelte dell’autore è imprescindibile. Questo workshop, invece, era incentrato su testi non ancora pubblicati, quindi da migliorare apportando modifiche anche sostanziali, intervenendo sulla trama e sui personaggi e così via. Io tendo a vedere un testo stampato (anche semplicemente da Word) come sacro, in cui si possono correggere errori e sviste ma intoccabile nella sostanza, pur magari accorgendomi dei suoi difetti. Questo corso mi ha aperto la mente e mi ha messa di fronte al grande potere di migliorare un testo cambiando radicalmente un’immagine, una scena, un personaggio. Non so se arriverò mai a fare un lavoro del genere, ma so che adoro discutere delle infinite possibilità che ci offre la letteratura.

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Le traduzioni a più mani

Innanzitutto, in che senso “a più mani”? Ci sono diversi modi in cui più persone possono lavorare a una stessa traduzione. Me ne vengono in mente tre, e finora ne ho sperimentati due.

1) traduzione in coppia
2) traduzione in gruppo
3) traduzione affidata separatamente a più persone

Come si può facilmente immaginare, la terza categoria è quella meno auspicabile (e quella che non ho ancora provato, per mia fortuna). Succede soprattutto con le agenzie, che hanno bisogno di una traduzione molto veloce: in questo caso dividono il libro da tradurre fra più persone, che in molti casi non si conoscono tra di loro, per poi effettuare una revisione dell’opera intera una volta ricevuti tutti gli spezzoni dai vari traduttori. Non esattamente l’ideale, ne convengo, ma vi assicuro che succede. Spesso le case editrici hanno bisogno di pubblicare in tempi brevissimi, e molte (anche insospettabili) affidano le traduzioni alle agenzie letterarie, che poi si regolano come meglio credono. In genere sono anche quelle che pagano meno, oltre a imporre dei ritmi di lavoro insostenibili, quindi è meglio puntare ad altro, se possibile. Quest’ultimo punto vale anche per le traduzioni che affidano a una persona sola, comunque.

Ma veniamo agli altri due tipi di traduzione a più mani, e cominciamo dal primo che mi sono trovata ad affrontare, ovvero la traduzione in coppia.
Nel mio caso si trattava anche della mia primissima traduzione, e il fatto che l’altra metà della coppia fosse la mia relatrice, già esperta, non poteva che aiutarmi. Abbiamo proceduto così: io traducevo capitolo per capitolo, rileggevo la mia traduzione, gliela passavo, lei la correggeva e poi la rivedevamo insieme, decidendo, se necessario, come cambiare ciascuna frase, parola, virgola. Dopodiché io riportavo tutte le modifiche sul documento e rileggevo un’ultima volta. Siamo andate avanti così fino alla fine del romanzo (ed era piuttosto lungo), poi abbiamo riletto la traduzione completa e l’abbiamo mandata alla casa editrice in attesa di ricevere le bozze, da rileggere un’ultima volta. Come potete notare, è stato un lavoro piuttosto lungo e impegnativo. Inoltre, spiegata così sembra che io abbia fatto gran parte del lavoro, ma non è assolutamente vero: le sue correzioni, sempre puntuali, precise e ineccepibili, mi sono state davvero utilissime. Credo sia stata l’esperienza che mi ha aiutata di più nella mia carriera, e auguro a tutti di poterne vivere una simile. Avere l’opinione di un’altra persona, quando si è esordienti ma anche quando si è già esperti, è molto importante: spesso lavoriamo così a lungo su un testo che ci “esce dalle orecchie”, e non vediamo più gli errori di interpretazione, i calchi, i refusi o anche solo le frasi poco scorrevoli, che avrebbero bisogno di una limatina. Insomma, la traduzione in coppia, vista da questa prospettiva, è davvero l’ideale.

Diverso, ma altrettanto interessante, è il caso della traduzione di gruppo.
Ho affrontato questo lavoro nell’ambito di una scuola di specializzazione, quindi con persone che in gran parte non avevano esperienze precedenti, ma accomunate da un profondo interesse per la lingua e la traduzione. È stato massacrante e intenso, frustrante e utilissimo. Perché? È presto detto. Dovevamo tradurre un romanzo con la classica divisione in capitoli. Ciascuno di noi (eravamo in quattordici) ne ha tradotta una parte, che è stata corretta dall’insegnante. Dopodiché ci siamo divisi in gruppi da quattro persone (uno era da sei, per arrivare a quattordici) e ognuno ha rivisto la traduzione degli altri componenti del gruppo, per poi discuterne tutti insieme e ottenere tre “blocchi” di testo già coerenti e rivisti da più persone. Nell’ultima fase, abbiamo dovuto ricucire insieme tutti i blocchi, per produrre un testo scorrevole, non solo senza incongruenze ma con una certa uniformità di stile. È stato difficilissimo, perché ogni testa lavora in modo diverso, e ovviamente metterne insieme quattordici ha prodotto una serie di discussioni che sembravano destinate a non finire mai. Qualcuno ha dovuto cedere su qualcosa, guadagnando magari una piccola vittoria in un altro punto, abbiamo litigato per ore e ore sulla posizione delle virgole e sulla scelta degli aggettivi, ed è stata un’esperienza terribilmente stancante ma molto, molto utile.
Vedere il proprio testo corretto da tredici (anzi, quattordici, con l’insegnante) persone diverse ci regala una prospettiva unica nel suo genere: è una cosa che non capita spesso, e mette a dura prova la nostra autostima. Allo stesso tempo, però, confrontarsi con gli altri ci fa acquistare una consapevolezza che altrimenti difficilmente otterremmo: ognuno si rende conto delle proprie idiosincrasie, delle proprie fissazioni e dei propri punti di forza e debolezza. Si tratta di un esercizio benefico anche dal punto di vista umano: si impara a esporre le proprie idee e a sostenere le proprie convinzioni, ma anche ad ammettere che, a volte, le soluzioni proposte da altri possono essere migliori delle nostre.
L’umiltà è una delle doti che non dovrebbero mai mancare a un traduttore: perciò, se qualcuno trova una frase più azzeccata della nostra, chapeau: ci rifaremo la prossima volta.

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